Report non ha salvato la pizza, ma stavolta ha fatto un grande spot per Napoli che viene criticato solo da chi non c’era

Pubblicato in: Polemiche e punti di vista

di Luciano Pignataro

Recita un detto napoletano: «’O munn è comm un so fà ‘ncapa». Nel 2014 le telecamere di Report vennero a Napoli e sputtanarono tutto il comparto pizza quasi senza appello. Questa settimana Bernardo Iovene è tornato e ha parlato di vero e proprio rilancio del mondo pizza ribaltando la narrazione. Ovviamente nessuna delle due rappresentazioni è vera nel suo complesso, ma ci ha fatto ovviamente molto più piacere la seconda puntata della prima perché è sicuramente vero che a Napoli è possibile mangiare moltissime ottime pizze ovunque, sono aumentati gli investimenti e si è creato un movimento ampio che ha coinvolto prima tutta la Campania, l’Italia e tantissime nazioni dove sino a poco tempo fa era impensabile mangiare una buona pizza. La puntata ha sbancato: 15% di share, quasi tre milioni di spettatori.
Otto anni fa come Mattino criticammo la puntata di Report che si inseriva in un contesto generale in cui la gastronomia della città era sotto continuo attacco mediatico da parte delle grandi industrie del Nord. Ricordiamo la Pomì che cavalcò la paura della diossina dicendo che i suoi pomodori erano della Pianura Padana, non precisamente un territorio di eccellenza ambientale, la puntata sulla mozzarella di bufala, più o meno sullo stesso tema. Ci sembrava assurdo che in un momento in cui i francesi della Michelin premiavano la nostra gastronomia collocandoci prima terzi e poi secondi come numero di locali stellati, in una regione con il maggior numero di dop e igp e un settore agroalimentare in piena attività e sviluppo si collocassero delle narrazioni esclusivamente negative. Certo furono articoli duri, come del resto la puntata di Report.
Nel corso di una intervista, in realtà un simpatico siparietto fra colleghi, andata in onda lunedì scorso Bernardo Iovene mi chiede se a mio giudizio la trasmissione aveva giovato al cambiamento del mondo pizza. La mia risposta, come si può ascoltare, è stata lapalissiana: «Certo le cose sono migliorate anche grazie a quella puntata». Ovviamente Report ci ha giocato su definendomi il «fustigatore pentito», ma nel gioco delle parti ci sta. Perché dopo otto anni possiamo dire che quella puntata, pur in una narrazione forzata e unidirezionale con qualche trucco (togliere la parola al pizzaiolo Vuolo mentre spiegava come si gestisce il forno) ebbe l’effetto positivo di scuotere un ambiente già in forte evoluzione. Perché negarlo? Sarebbe da stupidi.
E a chi si lamenta della eccessiva autoreferenzialità di Report ricordo un altro detto, stavolta italiano: «Chi si loda si imbroda», perché questa è stata l’unica nota stonata della seconda puntata.
Bastava dirvelo una volta che siete bravi, non dieci.
Ma la domanda è: l’aspetto principale di questa puntata è l’autoreferenzialità di Report o il riposizionamento centrale della Pizza a Napoli?
Tutto il contrario di Netflix che ha fatto sei puntate senza parlare di Napoli, ma si capisce perché: la consulente dl programma che ha costruito storytelling che spesso non collimano con la realtà è una giornalista americana che vive da anni in Toscana e che non sa nulla di pizza.

Come non sapeva nulla Daniel Young che improvvisamente mise Pepe primo di non si sa che cosa.
Gli americani, a differenza dei napoletani, sanno fare lobby, non c’è che dire. Anche se, per fortuna, la realtà alla fine prevale sui loro schemini studiati a tavolino. Peggio per Netflix, parlando di Napoli avrebbe certamente triplicato gli ascolti in tutto il mondo invece del prevedibile flop.*

Dato a Cesare quel che è di Cesare, diventa eccessivo parlare di un “prima di Report” e di un “dopo Report”.

Semmai le date spartiacque sono queste, quelle che si ricorderanno fra mezzo secolo e non oggi su Facebook.

1984 l’anno del primo disciplinare della Pizza
Sul piano storico, dovremmo parlare di un prima e dopo 1984, anno del primo disciplinare: in quell’anno parte la decisione di alcune storiche pizzerie di dotarsi di un disciplinare che metteva un po’ di odine in una materia di cui prima nessuno aveva scritto. Come tutti i disciplinari (vedi olio, vino, formaggi), fu frutto di una mediazione complicata ma alla fine si fece per la prima volta nella storia un po’ di ordine e si arrivò al marchio europeo.

Altro anno cruciale il 1994, quando Enzo Coccia apre la sua pizzeria. Ma il vero grande innovatore in materia di pizza napoletana, e dunque italiana, è stato Coccia quando nel 1994 lasciò la pizzeria di famiglia, lanciò la lunga matutazione, aprì solo di sera quando le pizzerie napoletane erano in genere chiuse la sera, fu il primo ad insistere sui concetti di digeribilità e quello che più di tutti puntò l’attenzione sui prodotti di piccoli artigini. Per lungo tempo fu l’unico punto di riferimento in città dei gourmet italiani a cui era collegato attraverso soprattutto la rete di Slow Food in una prima grande operazione di marketing della pizza napoletana.
Questo non significa che gli altri lavorassero male, ma solo che Enzo Coccia intuì per primo dinamiche moderne e attuali.

Il riconoscimento europeo del 2010
C’è un prima e dopo 2010, quando l’Europa riconosce la Pizza Napoletana Stg

Il riconoscimento Unesco del 2017
Prima e dopo 2017 quando l’arte del Pizzaiolo napoletano diventa patrimonio immateriale dell’umanità.

In queste quattro date tutti hanno giocato un ruolo importante, tutti quelli che hanno puntato veramente sulla qualità. In ogni caso non siamo noi giornalisti (e tanto meno gli influencer e i blogger) che facciamo la storia, al massimo possiamo intuire l’ondata, raccontare il trend, anticipare in qualche modo il futuro.
E’ divertente vedere come nel web ognuno fa risalire la svolta nel momento in cui il suo paladino ha aperto la pizzeria. Ma proprio questa è la differenza fra dilettanti e professionisti, cultura liquida e cultura storica. Non avere memoria del 1984 o non aver studiato significa essere dilettanti, semplici tifosi.

Il secondo innovatore nella comunicazione è stato senza dubbio Sorbillo: carta canta, ci sono gli articoli di Stefano Bonilli che ho ripubblicato che lo accreditarono nel mondo dei foodies che allora si stava formando grazie.

 

Parliamo degli anni 2008-2010, con i primi articoli che, oltre che sul mio sito, apparvero su Dissapore e culminati nella festa del 18 luglio 2010 di Dissapore organizzata da Maurizio Cortese dove oltre a Gino Sorbillo e Coccia, allora già due star dl web, fu invitato anche un allora, sconosciuto al grande pubblico, Franco Pepe. Il quale, nel 2011, grazie a Maurizio Cortese, fu il primo pizzaiolo d andare da Don Alfonso seguito a ruota da Gino Sorbillo. In quel periodo Franco frequentava molto via dei Tribunali.

Una fotografia dell’epoca è nella guida delle pizzerie di Napoli del 2011 di Monica Piscitelli, la prima del genere. Non a caso Pepe in Grani ancora non aveva aperto perchè nasce dopo un anno. Fu in quel periodo che i fratelli Francesco Salvo e Salvatore Salvo iniziarono il percorso che poi li ha portati alla ribalta. Ma è in quel periodo che Ciro Salvo punta all’alta idratazione dell’impasto rilanciando la pizza tradizionale trasformandola in una piuma. Prima da Massé a Torre Annunziata e poi da 50 Kalo di cui parlò per prima proprio Bonilli. Ed è in quel periodo che Martucci inizia il suo percorso che lo porterà al pari di Simone Padoan e Gabriele Bonci, ad introdurre concetti gastronomici sulla pizza.

Nell’arco di poco tempo nascono un sacco di protagonisti giovani, sono i canotti, secondo una fortunata denominazione inventata da Vincenzo Pagano perché all’inizio si parlava di gommisti.
Anche Pepe ha avuto il suo ruolo, non tanto sulla pizza in se, ma sul concetto di pizzeria moderna con la capacità di diversificare l’offerta nello stesso locale.

Il quel periodo storico era essenziale difendere, dal nostro punto di vista, la radice napoletana della pizza e fu allora che, anche stimolati dal programma, che si decise di avviare il percorso che ha portato al riconoscimento immateriale dell’arte del pizzaiolo che ha chiuso per sempre questa partita, sostenuto da Pecoraro Scanio e dalle due associazioni più importanti, Apn in primiis e Avpn, oltre a Coldiretti e Cna.

Oggi ovunque a Napoli, in Campania, in Italia e nel Mondo si mangiano ottime pizze, i protagonisti sono centinaia ed è un movimento in continua crescita come ha dimostrato il Forum di Madrid che abbiamo organizzato la settimana scorsa.

Colpisce la virulenza di certi sfoghi di questa settimana. Una parte sono di quelli che non sono stati interpellati: pura gelosia incontenibile che schiuma in rabbia. Un’altra parte sono di gente che visita pizzerie da qualche anno con passione ma senza aver studiato il passato e che fa iniziare la storia con se stessa, sono i tifosi di Tizia e Caio che non hanno visto il loro beniamino in tv. Ci sono poi i botoli, gli scherani locali dell’editoria del Centro Nord che è la vera grande sconfitta di questa puntata perché proprio otto anni fa voleva imporre una narrazione secondo cui lo stile napoletano era solo una delle declinazioni regionali di una presunta pizza italiana: le narrazioni di questa editoria sono sostenute con forza da un mulino del Nord che ogni anno sponsorizza tutte le guide sostenute da questi botoli e le manifestazioni possibili con scarso ritorno perché ha puntato su gente che non conosce la realtà della pizza. Vengono premiati solo i pizzaioli che consumano la loro farina, tanto per dirne una, mentre 50 Top Pizza non ha sponsor di farine.

Per la prima volta nella storia in tv la pizza ha avuto un narrazione da Sud, dove è nata

Una narrazione nordica spazzata via dal ciclone 50 Top Pizza, la prima guida che impone una lettura da Sud ma non campanilistica, in modo equilibrato, in forte espansione su tutto il mondo. Pensare che un giornalista esperto con 30 anni di professione come Bernardo Iovene si sia adeguato a chissà quali pressioni e per chi sa quali fini relega questi storytelling Doc, che hanno sempre origine in Doc Acerra e dintorni, allo stesso livello dei terrapiattisti o di quelli che associavano il vaccino al 5G e puttanate del genere. A una certa editoria non è riuscito di “colonizzare” il mondo pizza come per lungo tempo è stato fatto con la gastronomia (qui è stata la Michelin rompere il gioco). Perché un occhio estraneo, fuori dal giro dei soldi, non può non vedere l’evidenza.

La verità è che siamo in un incredibile circolo virtuoso, come ha dimostrato il summit di Madrid, che Bernardo Iovene ha colto perfettamente. Purtroppo, siamo sempre in Italia, chi non è citato si lamenta, ma in realtà, molti restano prigionieri del “particulare” di Guicciardini
Purtroppo in Italia manca una intelligenza collettiva e Napoli non fa eccezione: tutti dicono di amare la città ma quando si parla di Napoli senza di loro vai con le critiche.

 

*La vicenda di Danile Young è tutta da chiarire: nel 2017 qualcuno disse che la camorra non voleva che si presentasse il suo libro. Voci devastanti sui pizzaioli di Napoli che non avebbero digerito il finto primo posto di Pepe. Il responsabile di Campania Maurizio Cortese si rifiutò di avallare una operazione che era nata in altro modo.
Anche questa volta la venuta degli americani ha contorni misteriosi perchè la produzione contattò Francesco Martucci. Ma qualcuno lo ha voluto improvvisamente fuori. Chi?
Anche nell’ultimo servizio del New York Times improvvisamente dall’intervista sparisce Diego Vitagliano che era stato intervistato. Chi è il pizzaiolo che vuole stare sempre da solo e parla sempre male, malissimo, dei suoi colleghi? Quale lobby vuole evitare che altre figure emergano ogni volta che gli americani si affacciano in Campania?

 


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