di Daniele Lencioni
Dieci anni, anzi di più, un tempo infinito per rimettere piede in una città come Londra. Un tempo infinito ma forse anche necessario. Almeno nel mio caso.
Londra è sempre quel gigantesco, telescopico imbuto di casine appiccicate che centrifuga tutte la sua infinita varietà di abitanti e le riversa nel monumentale, febbricitante centro. Londra è una trapunta grigio lucido, con l’imbottitura satura e umida che copre un universo talmente contrastante da non riuscire nemmeno a definire limiti precisi al suo interno. Londra è stata la mia casa per un tempo abbastanza lungo da essere gravemente emozionato mentre la sto descrivendo, si, perchè la Londra dei miei venti anni è lontana dalla Londra dei miei trenta anni, o meglio, Londra è sempre più o meno la stessa, ma forse mi sento meno preparato di quando non la conoscevo. Che ci aspettiamo gli uni dagli altri? Non so. Probabilmente i miei occhi hanno visto più cose e sono più gonfi e dal suo canto si sarà depositata più polvere sulle sue costruzioni. Ma è ancora bella. E mentre ci cammino sopra mi rendo conto che una botta passionale sale ancora a flirtare con questa vecchia, folle elegante signora e allora eccomi qua, a sfidare il freddo e le luci dell’imminente Natale, a ricercare le insegne di quei locali precisi che mi hanno visto per la prima volta sfidare un pubblico di esigenti bevitori. Già, perché fu proprio a Londra, nell’autunno di dodici anni fa che misi per la prima volta piede dietro al bancone di un bar, fu in quel momento che presi per la prima volta una bottiglia (un Jhonny Walker black label) e mi resi conto del crepitio del ghiaccio a contatto con l’alcool, sotto gli occhi del cliente pagante.
Non che ci badassi molto in quel momento, per me Londra era un cratere aperto di sogni e fantasie, Londra aveva venduto in miei quadri, mi ha fatto credere di poter essere un artista, mi ha ospitato, mi ha cresciuto e cambiato, mi ha fatto incappare in qualche vizio, ma mi ha lasciato lividi e desideri. Mi ha sostanzialmente dato tutto, ma mai avrei pensato di trovarci l’inizio di quello che è ancora il mio lavoro. Prima di partire mi spaccavo il culo sezionando blocchi di marmo in bizzarre forme per ridicoli trofei, servire da bere sembrava al contrario un buon modo per guadagnarsi da vivere in giro per il mondo. Ma fu il mondo miscelato a venire da me.
Adesso Londra è la capitale indiscussa della miscelazione in Europa, e mentre ricerco le tracce del mio passato nel medesimo luogo, voglio confrontarmi con la nuova era sperimentale e capire a che punto sono e a che punto siamo.
Lascio volutamente in disparte in questo mio percorso la prestigiosa Londra dei grandi hotel, Savoy, Ritz, Connaught, per dirne alcuni, (fatta eccezione per il Dorchester, spiegherò poi perchè) per concentrare l’attenzione sui piccoli locali speakeasy e similari, dove nessun vincolo pone limite alla creatività della proposta.
Lei invece qua non c’è mai stata, e tutto scintilla nei suoi grandi occhioni come del resto succede di fronte alle novità di un certo tipo, e io mi diverto a portarla nei punti chiave della città, abbastanza divertito in questo ruolo di padrone di casa.
Ok, adesso beviamo.
Per prima cosa è fondamentale sapere quali sono i punti di riferimento in questo universo di bar. Bene, alzo il telefono e chiamo Thomas Cecere, collega Aibes che ormai da qualche anno lavora a Londra, al Berners Tavern del London Edition Hotel.
Ragazzo preparatissimo, poco più che ventenne, il quale si offre di guidarci dentro questo intricato mondo del bere miscelato, mi manda una serie di nomi, la sera stessa non può raggiungerci ma noi decidiamo, spinti da un’irrefrenabile curiosità il nuovo locale di Marian Beke. Uno dei barman di punta della nuova era della miscelazione, chiusa la parentesi Nightjar ha inaugurato da appena cinque giorni il Gibson, riprendendo il fondo di un pub centenario, rimesso a nuovo ma non troppo, strizzando l’occhio allo stile liberty.
Il suo percorso dopo-Nightjar è sicuramente una grande sfida, per anni lui e Luca Cinalli hanno costituito una coppia vincente, tappa sacra per gli estimatori mondiali della miscelazione. Andiamo a vedere cosa combina adesso.
La fitta schiera di home made regna il retrobanco, la bottigliera è moderata e essenziale, grande scenografo del cocktail, si muove con movimenti belli ma contenuti, lei ne è estasiata e mi fa un sacco di domande attorno alla postazione di lavoro e tutti i suoi bizzarri ingredienti e attrezzi La prima parte della drink list è dedicata a alcune varianti (ovviamente) del Gibson, tutte molto sobrie e completate quasi tutte con cipolline home made. Ne provo una:
“Some Moth Cocktail” che riporta un marchio 1922 Harry Mcelhone, composto da Tanqueray gin, Noily Prat dry, Assenzio e la cipollina fatta in casa.
Risulta molto gradevole, fortemente aperitivo e bilanciato, con una gradevole dolcezza balsamica sul fondo data dall’assenzio. Cipollina ottima.
Lei osserva più volte la lista e con quella sua aria fiabesca decide di provare un “Wizard of Oz”: Woodford rye infused with cherry stalk, Barley candy syrup, Beirao liqueur, Blood orange e Clementine port, Smoked corn hair.
Arriva sotto un tappo di cioccolato fuso che ti inzacchera piacevolmente le labbra. Gusto barricato e affumicato di sigaretta assieme ad una ascendente nota agrumata, gusto complesso poco adatto ad un palato femminile ma apprezzabile dai maschietti in odore di clima natalizio.
Dalla cameriera arriva poi un inaspettato omaggio: “Holy Smoke.”
Zubrovka, Barrique honey mead, Spiced ale e pumpkins jam, Lemon, Honey, Iceberg lettuce juice, Corn polenta, Cedar wood e white sage.
Gradevole fino a un certo punto. Le idee, per altro buone sono in contrasto tra di loro, il gusto se ne va un po’ da tutte le parti e non hai idea di quello che gusti, nemmeno se lo apprezzi o no. Troppa roba Marian.
Chiudiamo con “Big in Japan”: Hakushu whisky, Yuzu juice, Lime, Royal jelly rice syrup, Grilled rice powder, Pickled ginger, Ginseng wine, Patchouli wood perfume.
Incuriosito nel tuffarmi in oriente, guidato da un whisky locale attraverso una serie di ingredienti a me poco conosciuti. Gradevole l’impatto, ma la tendenza a non dare una scala di importanza agli ingredienti torna a essere fastidiosa anche qua, i sapori risuonano uno dentro l’altro e si accavallano, con punte anche amare. Il side al patchouly ricorda le bancarelle di CamdenTown, decisamente omissibile.
Divertente la tappa al Gibson. Beke non si smentisce per la sua affannosa ricerca di nuovi sapori, ma dovrebbe ricordarsi anche della piacevolezza dei classici.
La sera dopo Thomas è con noi, e in una piovosa serata ci addentriamo nelle zone di Shoreditch e dintorni. Ci porta al Callooh Callay, localino affollatissimo, anche qua gli home made affiorano abbondantemente sul banco e la bottigliera è ben nutrita, lo staff è preparato e all’avanguardia, hard shake e throwing e servizio impeccabile dalle ricercate decorazioni, dove la drink list è un album di figurine, nel quale ci sono solo le descrizioni e l’immagine te la danno solo se consumi quel cocktail. A noi tre non ci ha dato nulla nessuno, comunque buona l’idea. Prendo uno “Zymology”: Tanqueray gin, Burdock bitters, Fermented green apple juice, Black sesame, Honey.
Gusto da sour, il fermentato di mela ti porta fino a una nota agrumata che tiene ben vivo il drink, l’equilibrio resta fino alla fine e chiude con una nota confortante, il miele o il bitter?
Per lei arriva un “Prince of Persia” (ve l’avevo detto che si porta un’aura favoleggiante!): Saffron infuse beluga vodka, Cocchi americano Vermouth, Rose cordial, Pernod Absinthe, Lemon Bitters.
Buono senza esaltare, a lei piace molto. La speziatura è sotto controllo e tutti gli ingredienti se ne stanno buoni, cordial e cocchi si fondono quasi in un gusto unico. Da provare ma non da riordinare.
Passiamo oltre, Thomas ci porta questa volta davanti a una stretta scalinata che scende verso un locale che si chiama Happiness Forget, Simile all’altro come impostazione ma più underground, pieno anche qua, ma un tavolo si trova. Drink meno complessi, ma interessanti.
La composizione dei cocktail e gli appunti di degustazione a questo punto della serata sono andati in parte perduti, comunque ordiniamo un “Tokyo Collins”, freschissimo, con gin, sakè e una componente agrumata pompelmo e piccoli accorgimenti home made. Arido di novità e originalità ma veramente piacevole, ne avrei bevuti diversi, giuro. Nelle mani di lei invece brilla un rossastro drink a base sherry (due tipologie se non ricordo male). Molto decisa la nota muffata del vino in questione, ma contornato da una decisa affumicatura. Troppo forte per le sue labbra, ma secondo me originale e ottimo cocktail after dinner. Peccato che noi quella sera neanche abbiamo cenato.
Con Thomas ci confrontammo comunque molto su come e cosa miscelare, tra il suo approccio, dieci anni più giovane, e il mio ci sono differenze che avrebbero portato a discussioni eterne.
Ma che cosa si beve a Londra adesso?
Rivisitazioni di grandi classici, mi dice, sopratutto Old Fashion e suor in genere.
Ed è questo il punto interessante ne deduco. Ognuno vuole riproporre le sue idee in un grande classico, fino anche a stravolgere. La rincorsa all’home made più esaltante o all’accostamento più improbabile è il simbolo dell’alchimia che pervade adesso questo mondo.
Salutiamo Thomas e proseguiamo.
Eccoci alla motivata eccezione del nostro percorso.
Belli, accorti ed eleganti facciamo il nostro ingresso al lussuoso Dorchester Hotel. Siamo qua per salutare la barlady neo campionessa Britannica Lucia Montanelli.
Italiana, italianissima, versiliese. Passando per Londra un saluto era doveroso, perchè è brava e se lo merita e perche è un’amica, e ci siamo diplomati assieme al corso Aibes.
E allora vediamo come si beve al banco della campionessa nazionale.
A parte l’onore di aver conosciuto il bar manager Giuliano Morandin, una leggenda del bartending, Lucia, intenta a sciabolare bottiglie di champagne per la sala mi lascia nelle mani di Facundo, un ragazzo di origini sudamericane ma cresciuto in Italia e poi salito recentemente a Londra, che con grande tecnica ed eleganza ci delizia con :
“Her Majesty’s cup”, Earl grey infused berries, Rhubarb, Hendrix gin, topped Champagne. Femminile, affabile, delicato e garbatamente ruffiano, la bella signorina lo beve da un calice che finisce a tazza, con fare distratto ma attraente, non c’è da applicarsi, i sentori arrivano da se e anche le attenzioni.
Segue:
“Martinez”, grande classico della miscelazione fine ottocento riproposto con Old tom gin Dorchester (la distilleria City of London ha creato questo gin appositamente per l’Hotel), Punt e Mes, Maraschino e Boker’s bitter.
Appena twistato, da bersi con estrema lentezza, sentendosi anche padroni del proprio pezzo di banco a cui si è rigorosamente appoggiati. Il drink giusto nel posto giusto. Se sorseggiato nel giusto modo fa colpo nella signorina che ha l’Her Majesty’s cup…
Colpo di scena finale:
“Pisco Pasco”, Pisco, Passion fruit, Lime e Amargo chuncho bitters. Twist serio, composto e geniale del Pisco punch, semplicemente splendido o splendidamente semplice. Da bersi per tutta la notte, per lui e per lei. Da provare.
Grazie agli amici del Dorchester per questo prestigioso intermezzo nel selvaggio turbinio dei locali all’avanguardia.
La prima parte si chiude qua, con la bocca appena impiastrata di tutti i sapori che troveremo saltando di bicchiere in bicchiere. Una leggera pioggerellina saltella sul bus che ci riporta a casa. Lei si addormenta e io penso, guardando tra le colature dei finestrini, che probabilmente in Italia la pioggia mi avrebbe già annoiato.
A presto!
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