Questa volta ci sembra che l’inchiesta food di Bernardo Iovene sia andata davvero in fondo. Molto di più che nella puntata di Report sulla pizza bruciata che a noi fece arrabbiare perché partiva da una tesi precostituita e funzionale al marketing di qualche operatore dell’epoca, quello della farina integrale.
E in ogni caso stavolta non c’erano pizzaioli disarmati davanti alla telecamera, ma critici, giornalisti, cuochi, ben abituati al palcoscenico.
Quali sono le riflessioni da fare?
La prima è che l’intreccio tra pubblicità e contenuti è venuto fuori in maniera evidente. Questo è il vero problema del settore gastronomico ma non solo. Ossia, al di là delle furbate individuali, c’è una patologia di sistema per cui è come se uno sponsor di calcio dovesse decidere anche chi vince la partita e non solo trarre beneficio dalla visibilità ricavata dall’evento. Vedere aziende produttrici e soprattutto distributrici determinare le scelte nei congressi gastronomici è qualcosa di molto avvilente perché condizionano i contenuti e dunque la scientificità. Alla fine è un boomerang per le stesse aziende che investono. Questo accade anche perché le istituzioni pubbliche sono molto deboli e in ritardo su questo settore che si è autoalimentato praticamente da solo negli ultimi vent’anni. Molti giovani cuochi, è apparso chiaro, pensano che per salire su questi palchi sia necessario comprare certi prodotti. E questo vale anche per i pizzaioli.
La pubblicità non è Satana, anche Report si regge grazie agli sponsor. Ma è sbagliato che i contenuti ne siano condizionati, in qualche caso in modo totale. In tal modo le guide rischiano di diventare cataloghi e i congressi semplici show room. Tutto legittimo, intendiamoci, purché si dia il giusto nome alle cose.
La seconda riguarda gli editori. Un tema che non riguarda solo la gastronomia, ma che in questo settore è particolarmente presente: se gli sponsor sono così forti è perché le imprese editoriali che investono sulla qualità sono in evidente ritirata con tagli delle spese e sui costi del lavoro. Chi gira per le guide viene appena rimborsato, i siti pagano pochissimo e non consentono di vivere solo con la scrittura, sicché molti scrivono su giornali e blog per acquisire visibilità e poi procurarsi uffici stampa e consulenze. Dunque non si pongono dal punto di vista del lettore o del cliente ma del produttore o del ristoratore, due categorie ormai abituate all’agiografia. E le abbiamo misurate noi le furiose reazioni quando siamo andati anonimi stilando una classifica di pizzerie sul Lungomare di Napoli o a Caserta. Succede dunque a tutti, anche ai giornali più blasonati, di avere qualcuno che scrive per procacciarsi uffici stampa, è capitato anche qui e non ho vergogna di parlare di corda in casa dell’impiccato perché abbiamo iniziato ad affrontare la situazione facendo pulizia e presto avremo novità sostanziali. Finché non si scioglie questo nodo il confitto di interessi resta un dato sistemico e non una mera deviazione personale.
La terza è il compiacimento nostro di come sia stato affrontato un tema a noi caro: di come cioé sia importante per i cuochi andare al mercato, fare la spesa, seguire la stagionalità. Non perchè i distributori di lusso siano cattivi, ma perché a loro bisogna rivolgersi solo quando non si trova materia prima nela raggio di una cinquantina di chilometri. Facciamo anche cento, va. Altrimenti il cuoco si trasforma in impiattatore.
La quarta, infine, è il lavoro nero. Qui le tesi sono opposte e sinceramente non ho avuto il tempo di approfondire se i nostri locali sono in linea con quanto avviene nel resto del mondo. Il Noma, ad esempio, era portato avanti quasi esclusivamente da stagisti. Una cosa è certa, molti stellati senza stagisti non si potrebbero reggere, molti mestieri funzionano in questo modo, compreso quello del giornalista che è da sempre un impegno senza orari e sempre più malpagato dagli editori: se davvero si dovessero applicare i contratti i giornali non uscirebbero, un po’ come l’ingorgo perenne che si formerebbe se si dovessero rispettare i limiti di velocità imposti dai comuni per taglieggiare gi automobilisti. Ci sono insomma alcuni mestieri che vanno oltre la norma e non potrebbe essere diversamente.
Infine la critica di Valerio Visintin, che ha ragione quando parla di eccesso di promiscuità fra critici e criticati, ma sbaglia a dire che è tutto finto perché un bluff non si reggerebbe tanti anni e soprattutto non sarebbe un modello a cui aspirano intere generazioni. L’alta gastronomia non è un mondo marcio mentre quello delle trattorie un mondo sano. Anzi, a ben vedere, i grandi affari si fanno sui grandi numeri ed è molto più facile trovare cuochi di rango investire sui prodotti locali che trattorie lavorare sull’autentico. Anche qui abbiamo misurato le furiose reazione di mediocri e analfabeti spacchetattori di buste di lusso sui social quando abbiamo sollevato il problema. Insomma, l’analisi seria va fatta in verticale, non in orizzontale.
Due note a margine
La prima un complimento professionale a Dissapore che ha anticipato il testo della puntata prendendolo dal sito di Report di circa un’ora rispetto alla messa in onda e che costituisce la base delle nostre riflessioni.
La seconda riguarda chi pensava a questa puntata come uno strumento per realizzare la propria piccola vendetta personale contro qualcuno o qualcosa: in molti sono rimasti a bocca asciutta anche peché non hanno avuto le palle e gli argomenti per esporsi e hanno raccontato in un orecchio quello che non potrebbero mai sostenere in pubblico perché loro sì sono in confitto di interessi. Iovene invece ha saputo muoversi bene nel mondo ciarliero e troppo avido ultimamente dell’enogastronomia raccogliendo voci e malefatte lanciate da qui e di là, ma è riuscito a tenere sempre alto il profilo dei temi trattati.
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