di Antonella Amodio
Ho un debole per il Taurasi, che per quanto mi riguarda non ha bisogno di nessun periodo dell’anno o abbinamento adeguato per essere bevuto. Il suo “stare nel tempo”, garantito dalla longevità dell’uva aglianico, promette un sorso quasi eterno, specie se la cantina della bottiglia in questione produce vino solo dal 1878. Scorgo il Taurasi Radici Riserva 2004 Mastroberardino tra le etichette dei vini della carta del Ristorante Megaron, a Paternopoli, regno della cucina irpina di orto. Un’annata partita in ritardo la 2004, con sbalzi termici importanti, con una estate calda e asciutta e un autunno con temperature sopra alla media, che in Irpinia ha regalato vini austeri e ricchi. Un millesimo particolare, che a macchia di leopardo ha offerto invece un clima ottimale per la produzione vitivinicola. Il Taurasi Radici Riserva 2004 Mastroberardino ne è la conferma, sfoggiando un carattere forte e un corpo saldo, manifestando freschezza e gioventù da vendere, con i tannini appena appena accennati e di elegante fattura, quasi a marcare l’importante spina dorsale del vino. Vibrante e verticale al sorso, con il gusto che rimbalza l’olfatto nelle nuance di fiori secchi e accenni di frutta rossa che fanno da apripista alla macchia mediterranea. In seconda battuta, fa capolino una nuance di radice di liquirizia. Nessun accenno di note terziarie, come anticipato già dal colore granato integro e luminoso. Un vino con una gioventù incredibile, dal sorso incalzante, capace di regalare emozioni nei suoi primi 19 anni, splendidamente portati.
Report del 7 dicembre 2011
MASTROBERARDINO
Uva: aglianico
Fascia di prezzo: da 20 a 25 euro
Fermentazione e maturazione: legno
Un pranzo di famiglia, da un lato un bel Chianti muscoloso con la solita spruzzata di merlot, dall’altro il Radici, che all’inizio faccio portare solo per me confidando nel fatto che gli altri possano preferire un vino profumato, dolce e morbido. Invece, sarà stata la cucina cilentana tosta di Rosa Rocco della Tavernola, quel bisogno di acidità appagante e rassicurante che solo l’Aglianico invecchiato riesce a dare, insomma: il Radici è finito, la vecchia gloria anni ’90 no.
Un anno per il Taurasi equivale allo schioccare delle dita in termini di tempo. Il 2004 si conferma grandissimo, in ottimo equilibrio e perfettamente fresco, quasi un prototipo dell’Aglianico che rimanda per certi versi al Riserva 1997 per questa sua incredibile energia. Come sempre attacca sornione al naso, lo si deve sempre cercare, poi, piano piano, esce con i suoi sentori di ciliegia fresca, tocco agrumato, cenere. In bocca ha buona materia e tanta freschezza, l’attacco è già secco, e la beva prosegue così sino alla chiusura amara e pulita lasciando lunghezza e intensità alle spalle.
Aristocratico da solo, operaio con il cibo, come non poteva essere il principe della festa?
Scheda del 7 novembre 2010. Sarà perché nella vita precedente ho lavorato alla cattedra di Storia contemporanea, o perché da ragazzo correvo il mezzofondo: a me i centrometristi non hanno mai impressionato. Ho sempre pensato, fantasia infantile, c’è un altro giro, la pista continua. E poi, più grandicello: è solo una convenzione fissare una misura, conta chi resta in piedi.
Quando molti si avvicinarono al mondo del vino Mastroberardino sembrava arrancare: la divisione familiare, nuove star riempivano guide e giornali specializzati, molti conferitori avevano iniziato a lavorare in proprio catturando gli interessi di chi non conosceva il territorio.
In più le voci: vedrete sta vendendo, i suoi vini non sono buoni come i nuovi, eccetera eccetera.
Io però quando andavo a trovare Antonio e il giovane Piero che si era appena affacciato in cantina, la prima volta nel 1995 c’era ancora il fratello Carlo, avevo sempre trovato un’azienda perfettamente funzionante, gli addetti al lavoro con il camice bianco, i vini sempre in ottima forma e pensavo: sinora è solo un preriscaldamento mentre i tonti pensavano che la partita fosse chiusa.
Dopo tanti anni il Taurasi fa il pieno e, secondo il sito winenews, è il vino più premiato dalle guide 2011. Ovviamente non conta molto se la cosa sia numericamente esatta, pesa il significato politico di questa designazione impensabile, ripeto, solo dieci anni fa, quando iniziò l’operazione Villa dei Misteri.
Quando ci troviamo di fronte questi vini ci chiediamo sempre: qual è il loro fascino? Perché riescono ad imporsi senza strillare?
La risposta è molto semplice, Piero ha capito con molto anticipo che una sola cosa poteva distinguere la sua bottiglia da quella del vicino: il tempo. Ove tempo è un termine astratto, convenzione umana come ben scrive Agostino d’Ippona, è una parola simile a terroir, significa tutto e nulla.
C’è il tempo masticabile, ossia la capacità del vino di avere vantaggio dallo scorrere degli anni e dunque aggiunge all’analisi organolettiva nuovi elementi di valutazione, prospettive ulteriore ai sensi.
C’è il tempo del marchio, l’unica cosa che alla fine resta, sia di privati o territoriale. E per quello servono almeno un paio di generazioni per fissarlo nella testa delle gente.
L’Aglianico e il Fiano sono stati dunque due buoni alleati di Piero perchè si prestano a questo gioco, lui non è apparso improvvisatore perché già suo padre, e prima ancora suo nonno, vinificava aglianico e fiano.
Il tempo è comunque anche una materia molto concreta, che fa la differenza a seconda di come ci si rapporta.
La società pastorale conosce la notte e il giorno e le due stagioni della transumanza. Non ha bisogno di orologio.
Quella agricola porta a quattro le stagioni, ma per questo non deve guardare l’ora. In fondo tagliare un tralcio alle 6 di mattina o alle otto non fa alcuna differenza.
Quella commerciale fa del tempo l’arma segreta perché il successo del risultato è affidato alla consegna certa, agli incassi, ai rapporti con gli istituti bancari, divide l’anno in 52 settimane di sette giornate e se ne assegna una di riposo con la scusa che è un precetto proveniente dall’Aldilà. Ma invece è solo una tregua.
La società borghese universalizza il tempo decimale e si impadronisce del tempo mondiale eliminando le altre misurazioni grazie alla potenza della merce che sostituisce il prodotto, meglio: del prodotto misurabile esclusivamente come merce grazie al danaro e al tempo di consumo.
La cultura finanziaria elimina infine il tempo perché ha bisogno di tutto il tempo: i 24 fusi orari sono tutti utili al business e il rapporto con il ritmo della natura è ormai qualcosa di cui non si avverte alcun bisogno. Non importano più caldo e freddo, le stagioni, le ore. Contano i secondi tra una transazione all’altra e tutti i secondi dell’anno sono uguali. Secondi senza qualità sensoriali.
In questo progressivo processo di alienazione dell’uomo da se stesso, il vino si colloca tra la cultura agricola e quella commerciale benché qualcuno abbia annusato, anche la Mastroberardino, prodotti finanziari. Per fortuna i fondi basati sul vino sono tutti fottuti come quelli immobiliari americani nel 2008.
Il mestiere di vitivinicultore è nel mantenere il giusto rapporto tra due attività umane assolutamente scisse in Campania sino ad appena 20 anni fa, ossia la produzione di uva e di vino da un lato e il commercio dell’imbottigliato e dello sfuso dall’altro.
Molti che vinificavano per lunga tradizione, i Mastroberardino e i Martusciello per citare i più famosi e antichi, hanno capito la necessità di portarsi sul lato agricolo per poter continuare a farlo autorevolmente. Al tempo stesso molti che producevano uva e vino hanno pensato di entrare nel commercio al dettaglio.
Ora l’aspetto affascinante di questa partita a senso inverso giocata negli ultimi dieci anni è che i fatti sinora hanno dimostrato come sia più facile andare dal commercio all’agricoltura anziché muoversi dai campi alle enoteche.
Gli esempi a disposizione sono infiniti: le aziende irpine sono per la maggior parte la disperazione per tutte le guide, si caratterizzano per i ritardi, le non risposte al telefono o alle mail, devono essere sollecitate in continuazione. Alcune mandano i vini solo a quelli che ritengono amici confidando in premi e riconoscimenti certi. Può sembrare incredibile che esista ancora e sia operante questa subcultura familistica amorale descritta da Banfield negli anni ’50, ma ci sono anche questi problemi con cui misurarsi.
Magari fosse solo questo. Molto cantine sono anche la disperazione dei buyers per la scarsa puntualità della consegna, la non affidabilità negli ordini, le continue variazioni di prezzo tipiche di chi non fa neanche una analisi del costo industriale di ciò che produce. Spesso hanno ragioni infantili alle radici dei loro listini.
Il problema è che come non è importante l’ora in cui si tralcia, non lo è neanche quando si consegna. In fondo, due o tre ore che differenza fanno, e se il corriere parte il giorno dopo, che differenza fa?
Dunque ecco spiegato cari amici, perché il Taurasi 2004 riserva di Mastroberardino è campione d’Italia.
La materia eccelsa è lavorata da una matura cultura commerciale in equilibrio con il tempo.
Perciò non vi appallo con i sentori, compratelo e sentiteli da soli, in una bottiglia non c’è solo il vino ma anche il produttore e la sua capacità di stare al passo con i tempi.
In questo caso parliamo dell’unica azienda campana in grado di vendere verticali in stile francese perché tutte le altre cercano di esaurire lo stoccaggio annuale come si fa con le pummarole e le nocciole.
Il tempo è la discriminante: se il Taurasi non viene venduto vecchio che senso può avere? Con il Piedirosso è perdente nei primi due o tre anni, dopo è no potable sul 99 per cento della cucina contemporanea.
Il 2004 Riserva è ancora infatti fresco, sapido, pimpante, tannini in leggero esubero. Esprime la prima vera annata collettiva di Taurasi, il resto è preistoria letteraria alla Sao ke kelle terre.
Mastro ha corso il mezzofondo perché il commercio può misurare gli anni, mentre l’agricoltura solo le stagioni.
La sintesi hegeliana di questa storia è che oggi la sua leadership è di gran lunga più solida e apprezzata di vent’anni fa.
Nel 1990 era primo tra pochi, adesso lo è tra 200 cantine irpine.
Prima era etichetta semi-esotica, adesso è tra i grandi in Italia.
Questo è tutto sul 2004, per quanto paradossale possa sembrare nell’era twitter in cui si parla senza dire nulla.
Sede a Atripalda, via Manfredi 75-81. Tel. 0825.614111, fax 0825.611431. www.mastroberardino.com . Ettari: 150 di proprietà e 150 in conduzione. Bottiglie prodotte: 2.400.000 Vitigni: aglianico, piedirosso, fiano, greco, coda di volpe, falanghina.
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