Per molti l’ultima annata perfetta è stata il 1999. A seguire abbiamo avuto bei millesimi, il 2007 d’oro per gli enologi, il 2008 e il 2010 a detta di tutti, il 2004 e il 2013 tra i mie preferiti. La scena è sempre la stessa: seppellita sotto una valanga di cassette c’era una vecchia Mastroberardino, l’obiettivo era innaffiare un capretto di fine anno a Piazzetta Milù e in quella jam session dove il giovane cuoco Luigi Salomone ha tirato fuori gli attributi: cosa di meglio di un antico Taurasi alla soglia dei 20 anni.
Si trattava di una magnum di Radici, che l’azienda, apro parentesi, tiene ancora in vendita insieme al More Maiorum, altro mio vino del cuore. Non la riserva, ma proprio uil vino base. Il risultato è stato spettacolare: quel che più dobbiamo apprezzare della storica azienda irpina è la capacità di mantere lo stesso marker pur nei cmabi di mano che ci sono stati nel corso degli ultimi quindici anni. Il naso da cercare dentro il bicchiere, profumo di Irpinia, ciliege e cenere da caminetto, il colore perfettamente integro, la freschezza perfettamente integrata al resto del vino. Insomma, una bellezza. Questi vini non possono raggiungere la complessità dei grandi rossi di Borgogna, ma hanno dalla loro, come il Barolo e il vecchio Brunello, una grande affidabilità da spendere a tavola. Resta questo, allora, il pregio di un rosso silente ed efficace, che fa ben sperare chi ancora possiede questa annata destinata a vivere ancora per molti decenni.
Anche altri 1999 di Taurasi hanno sempre regalato grandi emozioni, vogliamo ricordare per tutto quello di Antonio Caggiano, di stile sicuramente diverso ma che il tempo alla fine ricongiunge verso lo stile austero, non strillato, dell’Aglianico d’Irpinia. Sul quale possiamo fissare la prima legge in modo ufficiale: a meno che non si facciano errori di protocollo, questo rosso non si ossisa mai. In una parola, è immortale!.
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