di Paola Del Vecchio
Madrid. Dietro il danese Norma, altri sei chef iberici figurano nella lista dei 50 Best: Andoni Luis Aduritz col suo Mugaritz, Juan Mari Arzak, Eneko Atxa chef di Azumendi, Asador Etxebarri, Martin Berasategui e lo chef valenciano Quique Dacosta. Il patron del ristorante di Denia, dal 2012 3 stelle Michelin, con la sua cucina d’autore è fra gli ospiti più attesi alle «Strade della mozzarella». Eccellenza, avanguardia, innovazione unita alla tradizione sono alcune delle parole che meglio definiscono il suo lavoro ai fornelli. Una soprattutto, la passione. «Cominciai come cuoco per necessità e il lavoro suscitò in me il tarlo per la gastronomia, l’inquietudine, la curiosità, la voglia di fare le cose per bene. Il mestiere è diventato la mia passione e questa si è convertita in un’ossessione. La ricerca dell’eccellenza in tutti i parametri del ristorante, che gestisco da 26 anni, è la mia maniera di viverla, di alimentare l’embrione di un mostro gigante, che è in me e che sono incapace di saziare».
Dopo anni di leadership incontrastata di Ferran Adriá, a che punto si trova la gastronomia iberica? «La chiusura de El Bulli non significa Adriá abbia interrotto la ricerca concettuale e culturale così decisiva per lui e per l’intera gastronomia – replica Dacosta – La cucina spagnola ha autorevolezza, un primato la cui forza motrice continua a essere l’innovazione, che genera correnti e tendenze, concetti nuovi. A partire da una base popolare, la tradizione, con la quale non si scherza. Ma che evolve e non in un’unica direzione. Si articola per regioni e culture, in ogni territorio ci sono leader e ognuno interpreta il proprio stile. Solo l’avanguardia unita all’eccellenza e alla ricerca fa sì che emergano le idee migliori». La sua cucina «dipendente dai migliori prodotti naturali», affonda le radici nel Mediterraneo, come crogiolo di culture e orizzonte aperto. Dacosta cita la sua rivisitazione della tradizionale coca della cucina valenziana, la sorella gemella della pizza italiana, più alta, con olio d’oliva, formaggio e sangacho – la parte più oscura del tonno – come esempio delle fonti comuni. Ma anche «l’innovazione apportata negli ultimi anni pasta italiana, con l’evoluzione della cottura, non più in acqua separata dalla salsa, ma in un brodo con sapore, che è tanto simile alla fideua delle mie parti, la pasta cotta in un brodetto di pesce». E assicura di impiegare la mozzarella, che gli arriva fresca ogni mattina, elemento principe della gastronomia italiana, «che è uno dei contributi più importanti della mia cucina».
Chi, invece, alla convention di Paestum darà un apporto d’autore su «come lavorare in maniera innovativa un prodotto naturale come la mozzarella, come punto di partenza di piatti creativi» è Josean Alija, 36 anni, del ristorante Nerea, 1 stella Michelin appena sei mesi dopo l’apertura, nel 2011, nel Guggenheim di Bilbao, e premio Chef del Futuro dell’Accademia internazionale della Gastronomia. Il suo stile purista, in cui aromi, tessiture e sapori sono i principali componenti e base di una ricerca d’avanguardia, ha sedotto perfino il grande Paul Bocuse, che lo ha identificato come «una delle migliori cucine» della sua vita.
Una ricerca che Alija ha applicato ora alla mozzarella: «In sé è un prodotto che ha molta identità – spiega al telefono da Bilbao – ma ancora non si è esplorato il suo potenziale o quello del siero, come vincolo con aromi e sensazioni diverse. Ed è quello che io proporrò, dopo averne esplorato le principali caratteristiche, con elaborazioni diverse. Una, è la zuppa di cipolla con mozzarella in tessitura croccante, in cui propongo una lavorazione del siero».
Per capire la filosofia di uno dei più rivoluzionari chef del panorama mondiale, formatosi a El Bulli e da Barasategui, dai 17 anni mosso dalla voglia «rendere felici le persone» intorno a una tavola, bisogna conoscere l’anima e il segreto del suo processo creativo.
«Comincia dalla selezione della migliore materia prima del mare, dei monti e della campagna del nostro intorno, e dal suo studio, scientifico, biologico, antropologico – spiega – Passa poi per l’analisi sensoriale, l’individuazione delle caratteristiche, le peculiarità e le evocazioni dei sapori. La fase successiva è quella della riflessione, cosa si può creare con essa, in una cucina purista, naturale, fatta di essenze, per esaltarne le qualità più nobili, unire il nuovo discorso alle radici, ma con capacità di sorprendere e valorizzare gli aspetti inesplorati. Infine, la fase della standardizzazione della pietanza, la ricerca dell’eccellenza come costanza, con la mia equipe del ristorante Nerea, per offrirla al cliente».
Un processo che culmina con «l’esperienza dei commensali», un feedback non di rado incorporato nel piatto. Sull’esito della gastronomia spagnola, anche Josean Alija, non ha dubbi. «Ferran Adrá ha aperto la strada – osserva – ma non era solo. Ha contato su una base solida, importante, dove differenti chef esprimono uno stile molto personale, in ogni territorio, frutto di tradizioni diverse e non globalizzate. Si può dire che siamo stati i primi a scommettere sull’innovazione e l’evoluzione della cucina tradizionale, a entrare nel campo della ricerca. E questo – conclude – rappresenta senza dubbio un vantaggio rispetto ad altri paesi».
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