di Alessandro Manna
Ogni favola è un gioco,
che si fa con il tempo,
ed è vera soltanto a metà
[…]
e fa il giro del mondo,
e chissà dov’è nata,
è una favola, e non è realtà.
Edoardo Bennato
C’era una volta un territorio naturalmente e storicamente vocato alla produzione di vini pregiati; c’era una volta una vigna bellissima, ripida ma perfettamente lineare; c’era una volta un casolare, bello e funzionale che dominava la vigna; c’erano una volta i signori di questo podere, cortesissimi ed ospitali; c’era una volta un vino cui era difficile attribuire degli aggettivi, a causa del fatto che spesso risultava essere la somma di due aggettivi quasi contraddittori: complesso e chiaramente comprensibile, elegante e familiare, dinamico ed equilibratissimo, potente e clamoroso, ma persino un po’ leggiadro.
Sembra una favola, ma invece è realtà: l’Irpinia, Mirabella Eclano, Quintodecimo, Laura e Luigi Moio, il Taurasi riserva 2007. Tutto vero, eppure quasi incredibile.
Si arriva la prima volta con un po’ di dubbi sulla svolta esatta (nonostante la precisione con cui il professore ti dice del km. 3 e 700 della Nazionale delle Puglie); si sale con qualche incertezza, finché in una curva, tra due alberi, guidando si vedono per un attimo file perfettamente parallele di viti: “Eccola, è l’etichetta”. Perché è effettivamente così, il disegno sulle bottiglie è esattamente la vista che si ha della vigna e della casa arrivandoci.
Osservando invece la vigna dall’alto (siamo a metà settembre, con l’aglianico già bello blu, che sta completando la sua maturazione) la prima cosa che stupisce è l’assoluto parallelismo tra il pendio, la cima delle viti in alto e al centro la linea – pressoché perfetta! – formata dai grappoli. Ordine e linearità, si scopre, sono una specie di mantra per Luigi Moio.
Tutto è al posto giusto a Quintodecimo, e questa necessità di ordine, questo gusto della linearità e spesso della simmetria, è enfatizzata dal progetto totale che conforma l’azienda. Già ho definito leonardesco il modo di approcciare globalmente il vino (ma poi scopro tantissime cose che sono affrontate a tutto tondo, anche nel mondo extra-vino) e di assommare in sé la scienza teorica e la pratica. E sono diventati quasi leggendari.
Una specie di metafisica della vite e dell’uva, conoscenza assoluta del come-quando-perché: “Felix qui potuit rerum cognoscere causas”: così Virgilio, proprio nelle Georgiche, definisce chi comprende i rapporti di causa-effetto tra i fenomeni. Sicuramente contento, quindi, è il professore: tutta la sua esperienza, prima familiare, poi accademica, poi da consulente esterno, infine da produttore in proprio (senza mai dimenticare, ovviamente, il ruolo fondamentale della moglie) lo ha portato a comprendere perfettamente i perché.
E questo cognoscere causas parte, ovviamente, dalla natura del terreno, dalla sua esposizione e dalla ripidezza, dalle condizioni microclimatiche, dal porta-innesto, dalla varietà dell’uva, dallo stress cui preferisce sottoporre le piante
«In undici anni non ho mai concimato», dal sacrificio di uva (Vigna Quintodecimo ha una resa – voluta, fortemente cercata già con le potature invernali e poi coi diradamenti – di poco più di 35-40 quintali.
La ricerca della “fatica” della vite, si associa ad una cura certosina e all’angoscia, alla pietas – ne sono stato testimone – per una pianta inspiegabilmente morta: Moio si china a controllare, prende una manciata di terreno, analizza i tralci secchi, con un affetto quasi paterno.
Dalla vendemmia si cambia registro comportamentale: ai grappoli è dovuta ogni cura. La raccolta è scandita in frazioni piccolissime a seconda della ottimale maturazione; l’uva viene trattata con ogni attenzione possibile, raccolta in cassette minime; portata in cantina (volutamente costruita sotto la casa, come simboliche fondamenta del progetto totale e per avere una distanza minima dall’aglianico vendemmiato); vagliata da occhi esperti ed amorevoli, ma implacabili; diraspata in maniera delicata e poi privata dei micro-pezzetti di legno superstiti da mani attente; trasferita nei tini di fermentazione mediante pompe peristaltiche super soffici per non schiacciare i vinaccioli. «Bisogna eliminare tutte le fonti improprie di amarezza e quelle che portano una precoce ossidazione, il vino deve poter maturare senza invecchiare».
La pressatura è ovviamente specifica per ogni tipo di uva, e anche i percorsi dei vini sono differenziati: l’aglianico viaggia su una guida rossa; fiano, greco e falanghina seguono una traccia bianca. La sala dei tini di fermentazione e affinamento ha la stessa logica rigorosa, i rossi a sinistra su mattonelle vermiglie, i bianchi a destra su quelle chiare. L’illuminazione (sempre dettagliatamente pensata a priori) è una volta di lampadine quasi fioche, che di concerto formano una specie di omaggio alle notti stellate di Van Gogh. Con divertito orgoglio il professore mostra il quadro del controllo elettronico delle temperature di ogni singolo tino, specificando che sono pochi anni che l’hanno istallato: «Prima Felice (uno dei miei pochi collaboratori factotum) doveva arrampicarsi sulle scalette per le regolazioni».
Ha sempre considerato, Moio, la barrique uno dispositivo straordinario, e come uno strumento musicale, gli fa suonare spartiti diversi a seconda dei vini: con i rossi la malolattica e l’affinamento, i bianchi, invece, parzialmente vi fermentano. La sequenza delle botticelle è affascinante, e persino le macchie di sversatura diventano precise ed ordinate.
La visita continua in quello che diventa una specie di sancta sanctorum, gli ambienti di maturazione delle bottiglie, la cantina con l’archivio delle annate di Quintodecimo e delle aziende con cui Moio collabora, e tutti le bottiglie del cuore di Laura e Luigi.
Tutto, dunque, ha una logica, tutto una ferrea ricerca formale e sostanziale, fino all’etichetta (persino quando la firma sopra era – volutamente – poco leggibile) e alla ricerca vitruviana per l’armonia del marchio aziendale, costruito con rigore geometrico e proporzioni auree.
Dopo questo lunghissimo viaggio dentro Quintodecimo diventa inutile descrivere con aggettivi e persino con ardite metafore i vini. Gemme vinose scagliate nello stagno della consuetudine li avevo già definiti: oggi, avendo conosciuto i presupposti, i come, i quando e quanto, i perché, quasi non c’è meraviglia nell’assaggiare effetti così perfetti e logicamente – aristotelicamente – aderenti alle cause scatenanti.
Un caro amico di Moio mi ha raccontato che Felice, un omone forte e garbato, all’inizio dell’avventura di Quintodecimo diceva, del professore « Chill è nu poc’ pazz’»: durante la vendemmia 2011, spontaneamente gli è andato a confidare « ‘O pazz’ teneva ragione!»
Alessandro Manna
P.S.: la visita, il 16 settembre scorso, è avvenuta all’indomani della pubblicazione dei premi di una guida in cui tutte le aziende con cui Luigi Moio continua a collaborare hanno avuto il riconoscimento massimo, Quintodecimo no. Ricordando cosa scrissero i napoletani su molti muri della città quando il culto di San Gennaro fu declassato, la mia reazione è stata: “Prufesso’ futtatenne!”
P.S. 2: Ho taciuto – volontariamente – una descrizione aromatica e olfattiva dei vini, ma una piccola serie – assolutamente non esauriente – di aggettivi su Exultet 2006 non posso ometterla: sorprendente, incredibile, giovane (!), lunghissimo, di perfezione sferica, affascinante ed elegante come una gentildonna (gentiluomo, ovviamente, per chi preferisce), quasi ineffabile (e quindi sono stato presuntuoso a volerlo aggettivare).
Foto di Alessandro Manna
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