Quintodecimo ha 20 anni: li festeggia con la Grande Cuvée Luigi Moio Irpinia doc 2018
Devo dire di essere stato un giornalista fortunato. Fossi nato professionalmente negli anni 60, o 70, oppure 80, avrei avuto ben poco da scrivere e da raccontare della Campania e del Sud in generale. Invece mi sono trovato, come un surfista, come un surfista, sull’onda del grande rilancio della viticultura italiana che ha visto tutto il Paese teso in uno sforzo colossale verso il rinnovo dei vigneti, il miglioramento dlela qualità, l’investimento nella ricerca, nelle strutture, nella promozione e nella commercializzazione all’estero.
Nessun settore economico tradizionale ha realizzato questa performance, sollevandosi tra l’altro nella polvere in cui era finito con la crisi del metanolo del 1986.
In questi anni, il mio primo articolo sul vino è del 1993, dedicato alla amiglia Mastroberaridno che proprio in quei mesi aveva registrato la separazione fra i fratelliAntonio e Walter, abbiamo visto nascere decine e decine di aziende, molte le abbiamo viste letteralmente mentre erano in costruzione.
Tra queste Quintodecimo.
Ero di ritorno da un convegno in quel di Torrecuso quando mi venne l’idea di chiamare Luigi che sapevo a Mirabella, quasi di strada sul ritorno da casa. Ci debbo appuntamento ad una pompa di benzina Esso all’ingresso dell’abitato affacciato sull’Appia e di lì andammo subito a vedere l’edificio in costruzione: Luigi aveva esattamente idea di come sistemare tutto, compresa la propria abitazione perchè una delle regole d’oro è che bisogna vivere nelle vigne per poter lavorare bene. Mentre la casa era in costruzione, Laura viveva con Michele appena nato in un appartemento a Mirabella e Luigi andava avanti e indietro fra l’Università di Foggia le aziende che seguiva sparse nelle cinque province della Campania.
Le tappe di questa crescita sono ben fissate nella brochure che celebra il ventennale: nel 2004 la vendemmia di Vigna Quintodecimo e Terre d’Eclano, nel 2006 i primi due bianchi Exultet Fiano di Avellino e Vie del Camp, l’anno seguente il Greco di Tufo Giallo D’Arles e nel 2009 il primo Grande Cerzito. Infine l’ultimo nato, la Grande Cuveé Irpinia bianco da uve Greco, Fiano e Falanghina di cui parleremo dopo averla trovata.
I vini di Quintodecimo
La vicenda di Quintodecimo è paradigmatica, nel bene come nel male, del vivere in Campania. Nel male per le critiche assurde che accompagnarono la nascita di questi vini tra cui, quella più incredibile, che erano troppo cari: una osservazione che rivela un complesso di inferiorità rispetto ad altre zone del Paese, una mentalità da colonizzati, spesso espressa da chi paga 100 euro un Village. Nel bene perchè i fatti hanno confermato che in qualsiasi territorio vocato si possono fare grandi vini purchè il progetto sia rigoroso e soprattutto vada avanti snza deviazioni.
Oggi Quintodecimo ha trenta ettari di vigneto in tre tenute: Mirabella, Tufo e Lapio rispettivamente per Aglianico (siamo nell’areale della docg Taurasi), Greco e Fiano.
Luigi Moio è sicuramente stato un grande costruttore, come Piero Mastroberardino. Entrambi figli di una tradizione familiare, entrambi impegnati in una brillante carriera universitaria. Entrambi indifferenti alle mode e il destino li vede lavorare vicini, a Mirabella Eclano.
Le lezioni che Luigi Moio mi ha trasmesso nel corso di questi vent’anni di stima e di amicizia, una amicizia basata sul rispetto dei ruoli soprattutto, mai finita a cumpagnucci e cumpagnelli come spesso capita dalle nostre parti, sono tante.
La prima è il rigore del progetto. Bisogna avere chiaro prima quello che si vuole fare, non andare avanti a tentoni. Quante aziende hanno cambiayo in corso d’opera etichette, prodotto vini inseguendo le tendenze del momento. Invece non c’è settore come il vino in cui è difficile deviare la rotta una volta disegnata. Il progetto di Moio era fare vini dai quattro vitigni autoctoni principali della Campania, con uve di propria produzione e quindi gestite direttamente.Anche le etichette devono essere sempre le stesse, non vanno cambiate perchè se sono fatte bene la prima volta diventan un classico, un segno rassicurante.
La seconda lezione è credere nel territorio in cui si opera. Fermo restando, ci mancherebbe, la possibilità di sperimentare e provare, appare chiaro il percorso intrapreso dalla Campania che è quello dei vitigni autoctoni con una sola eccezione ragguardevole, il Montevetrano. Ma soprattutto in Irpinia, c’è l’uva e il terreno giusto per fare le cose perbene, un territorio tra l’altro favorito dal global warming perchè finalmente le uve non hanno problemi di maturazione fenolica.
La terza è fare quello che si dice di fare. Nessun mondo come il vino il fare e il dichiarare spesso sono un ossimoro, la verità è quasi un circuito parallelo conosciuto solo dagli adetti ai lavori. Invece la chiarezza sulla provenienza delle uve, perdere anche una battuta per motivi tmosferici, sono fattori che rassicurano i clienti e li difelizzano perchè non vengono mai traditi. Il pubblico del vino ormai è colto, alfabetizzato, non si spendono 100 euro per una bottiglia se non la consoci e sai come lavora un produttore.
La quarta è quella più importante di tute: dare valore al proprio lavoro. Se un Sassicaia, per quanto perfetto, figlio di una terra in cui non c’era tradizione costa 90 euro franco cantina, perchè un Taurasi che nasce in un territorio che dominava la scena negli anni ’20 e con una tradizione storica secolare non può costare altrettanto? Questa scommessa, coraggiosa e controcorrente, è stata vinta ampiamente. Naturalmente i maligni, perchè sempre ci sono, dicono che questi sono i vini per i russi. A parte che non c’è nulla di mare vendere vini meridionali ai russi, ma siamo proprio sicuri che c’è una grande differenza tra un cliente italiano e uno di un altro paese? E se così fosse, come mai sono i primi che finiscono anche nelle enoteche e wine bar dove ci sono clienti locali? Facile: si paga una qualità certificata dalla reputazione oltre che dal marchio europeo, proprio come un fagiolo di Controne costa dieci euro al chilo mentre uno argentino due.
Infine la gestione del tempo, del cuoncio cuoncio. Avere il tempo di fare le cose perbene e dare valore al tempo trascorso per poterlo vendere in bottiglia. Il segreto dei grandi vini è questo: hai voglia a piallare il gusto con i chips e a mettere merlot nell’Aglianico, ma se tu vuoi un grande Aglianico, grandi bianchi, devi dare il tempo necessario alle viti di produrre bene, al fino di maturare, ai clienti di aspettare. Si dice che nell’amore il tempo della seduzione e dell’attesia sia il vero godimento. Nel vino è esattamente lo stesso. Per questo produrre vino è un atto di amore e di fiducia nel futuro.
Quintodecimo nasce da una grande coppia che, Luigi e Laura e, senza retorica, ha lavorato per la generazione successiva.
Diciamo che questo è il segreto non segretopiù grande di tutti di Quintodecimo a Mirabella Eclano
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