di Roberto Curti
Una delle scoperte più divertenti che si possano fare a proposito del regista di Django Unchained è, sfogliando un’intervista datata 1992, incappare in un Tarantino che reduce da un giro promozionale di interviste a Parigi per l’uscita di Le iene, si dilunga a parlare della propria passione per McDonald’s. «Adoro andare da McDonald’s negli altri paesi. La differenza? A Parigi, non esiste il “Quarto di libbra” [il McRoyal Deluxe, NdA] perché lì hanno il sistema metrico decimale: lì c’è Le Royale con formaggio!». Ricorda qualcosa? Esatto, è lo stesso monologo che sentiremo un paio d’anni dopo per bocca di Vincent Vega (John Travolta) in una delle scene più celebri di Pulp Fiction.
Che Tarantino fosse un affezionato frequentatore di fast food e diners (le interviste ai tempi di Le iene e Pulp Fiction avvenivano spesso ai tavoli di Dennys, la sua catena preferita), era intuibile già dai film stessi. Le iene e Pulp Fiction iniziano lì, in uno scenario che è un tipico spaccato di vita ordinaria: tavoli in fòrmica, sedili in finta pelle, schifezze ipercaloriche nel piatto da buttar giù con tazzone di caffè che la solerte cameriera (non chiamatela garçon, mi raccomando!) dovrà riempire almeno sei o sette volte per guadagnarsi la mancia, almeno secondo i parametri di mr. Pink (Steve Buscemi) in Le iene. Ma i personaggi non sono lì solo per mangiare. C’è chi passa il tempo in attesa di una rapina, e chi pianifica una rapina in quello stesso luogo: nell’attesa, si chiacchiera.
Tarantino è un acuto osservatore comportamentale: e sa bene che l’atto di mangiare non si esaurisce nella meccanicità del gesto (salivazione, masticazione, digestione), ma può avere una valenza simbolica. Lo sa perché l’ha visto fare al cinema. La scena di Pulp Fiction in cui Jules (Samuel L. Jackson) morde l’hamburger dell’uomo che sta per uccidere, assaporandolo e accompagnandolo con un lunghissimo sorso di Sprite, senza mollare un attimo l’altro con lo sguardo, è un espediente scippato al maestro dei tempi lunghi, Sergio Leone. Una replica della scena di Il buono, il brutto, il cattivo in cui il bounty killer Sentenza (Lee Van Cleef) si siede al desco di una vittima e si appropria della sua cena, una misera zuppa di verdure, divorandola avidamente prima di freddare il malcapitato.
Il gesto di Jules è sfacciatamente intimidatorio, addirittura umiliante: vengo a casa tua, mi prendo la tua roba – il tuo cibo – come tu hai fatto con la mia (Jules e Vincent sono stati inviati dal loro boss Marsellus Wallace a recuperare una misteriosa valigetta). E poi ti ammazzo come un cane. E sappiamo bene che nel cinema di Tarantino il sangue è un condimento da spargere in abbondanza, come il ketchup sulle patatine.
Il cibo, insomma, è al centro di un atto di potere e sopraffazione. Accade qualcosa di simile in Bastardi senza gloria (2009) per opera del colonnello Hans Landa (Christoph Waltz), il mefistofelico cacciatore d’ebrei, uno che di psicologia se ne intende. Nella sequenza iniziale, a casa del contadino Perier La Padite, Landa chiede al padrone di casa un bicchiere del suo latte, che poi beve d’un sorso, ancora una volta senza staccare gli occhi dal contadino il quale nasconde sotto il plancito una famiglia ebrea che i nazisti massacreranno senza pietà. E più avanti nel film, in un bistrot parigino, è ancora Landa a insistere perché Shosanna (Melanie Laurent), l’unica sopravvissuta al massacro, assaggi uno strudel, specialità della casa, mentre interroga la ragazza. Il primissimo piano dell’abbondante cucchiaiata di panna aggiunta da Landa sulla fetta di dolce («Attendez la creme!» intima) è uno squisito tocco di sadismo nei confronti del pubblico oltre che di Shosanna. Per la quale la degustazione diventa un’ordalia, in balìa com’è dell’insidioso terzo grado da parte dell’uomo che le ha sterminato la famiglia. E alla fine del colloquio, il mellifluo Landa spegne con indifferenza la sigaretta sullo strudel: a conferma che del dolce in sé non gli importava assolutamente nulla.
Anche nell’ultimo Django Unchained, appena uscito nelle sale italiane, il cibo è al centro di una lunga sequenza fondamentale nell’economia del film. Nella residenza dello schiavista Calvin Candie (Leonardo di Caprio), lo schiavo liberato Django (Jamie Foxx) e il suo compare, il cacciatore di taglie King Schultz (ancora Waltz, premiato con il Golden Globe) sono seduti a tavola per una cena di lavoro: trattano l’acquisto di uno schiavo mandingo, che però per Django e Schultz è solo un pretesto, poiché il protagonista vuole in realtà riportare con sé la moglie Broomhilda, finita in schiavitù nella piantagione di Candie. E il violentissimo epilogo della scena avrà luogo mentre viene servito il dessert, una candida white cake, la torta alla crema di cui lo schiavista (e come potrebbe essere altrimenti?) è ghiotto.
Ma il cibo può essere anche un buon punto di partenza per spiegare l’approccio al cinema di Tarantino. In Grindhouse – A prova di morte (2007) vediamo per la prima volta il “cattivo”
Stuntman Mike (Kurt Russell) mentre si abboffa di nachos al banco del bar prima della sua notte omicida: pesca dal piatto con mani bisunte, si lecca le dita, si ingozza con voracità. Tarantino fa lo stesso con la cultura pop (cinema, musica, libri, fumetti) che ricicla a piene mani nei suoi film: entra in casa d’altri e arraffa quel che c’è sul tavolo o nel frigo, con un appetito apparentemente insaziabile.
La sua ingordigia non tragga in inganno: in quanto regista, Tarantino non è solo un consumatore ma anche uno chef, e non certo un bruciapadelle. E il suo metodo di rileggere i generi e proporli a un pubblico di massa ha qualcosa della creatività di quei signori dei fornelli che offrono versioni destrutturate di piatti della tradizione: il film di gangster (Le iene, Pulp Fiction), di guerra (Bastardi senza gloria), il western (Django Unchained), d’arti marziali (Kill Bill), l’horror (Dal tramonto all’alba, scritto e interpretato per l’amico Robert Rodriguez). Spesso mescolandone i sapori, aggiungendo spezie e guarnizioni inusuali, curandone la presentazione anche se non sempre azzeccando il sapore. Sempre, però, con un metodo di fondo che non conosce l’improvvisazione.
Il risultato è un microcosmo bizzarro, chiuso eppure potenzialmente infinito: al di là delle ricombinazioni e degli ingredienti ricorrenti, il brand Tarantino si estende al product placement. Se i gloriosi anni ’70 del cinema italiano erano zeppi di whisky J&B, acque Pejo, Fernet Branca, Marlboro e chi più ne ha più ne metta, Tarantino piazza sullo schermo marchi inesistenti come le sigarette Red Apple, la bibita G.O. Juice, il leggendario Big Kahuna Burger (la catena di fast food i cui dipendenti indossano costumi hawaiani menzionata in Pulp Fiction) e luoghi come il Jack Rabbit Slim’s, il ristorante anni ’50 di Pulp Fiction, dove si può ordinare una «bistecca alla Douglas Sirk» serviti da un cameriere con le fattezze di Buddy Holly o, se è una lei, di Marilyn Monroe o Mamie Van Doren.
Se l’industria del fast food statunitense ha trasformato l’atto del mangiare in un gesto da sbrigare in fretta e furia, passivamente, tra sapori standardizzati e offerte in serie, lo stesso si può dire di tanto cinema odierno, hollywoodiano e non solo. Tarantino recupera l’immagine del regista-artigiano (e dunque, per questo, autore), non solo per l’enfasi sulla propria persona in quanto artefice unico (un paradosso, se pensiamo che si tratta di un cineasta abituato a lavorare su materiale di serie qual è il cinema di genere) ma anche nella scelta dei modi di fruizione del suo cinema. Si pensi a Grindhouse (2007), il film in due episodi firmato con Robert Rodriguez: qui in Italia i due minifilm (A prova di morte e Planet Terror) sono usciti nelle sale separatamente, ma in America venivano proiettati uno dopo l’altro, come si faceva un tempo nei drive-in: per lo spettatore odierno, una sorta di menu degustazione, con tanto di amuse bouche rappresentati dai finti trailer di pellicole inesistenti a completare il pacchetto.
Quentin Tarantino è un autore di successo che vive e fa cinema per il presente e con gli strumenti del presente, proponendo però l’immagine nostalgica di un passato mitico e percepito come irripetibile. Non è un caso che lo zoccolo duro del suo pubblico sia rappresentato da quei cinefili accaniti che si identificano con l’ex commesso di videoteca e si entusiasmano davanti agli omaggi sparsi a piene mani a misconosciute pellicole di serie B. E per i quali riconoscere questa o quella citazione provoca le medesime sensazioni che il ricordo della ratatouille della mamma suscitava nel critico Ego in Ratatouille. Al cinema, come a tavola, spesso è la memoria l’ingrediente che fa la differenza.
Questo articolo, in versione rielaborata, fa parte di un ampio speciale sul cinema di Quentin Tarantino, contenuto nel numero di febbraio del mensile “Blow Up – Rock e altre contaminazioni”.