di Giulia Gavagnin
Dal gelato attribuito al siciliano Procopio Cutrò, transfuga a Parigi nella seconda metà del Seicento fino alle animelle in tempura con alga nori, dashi, zenzero e caviale dell’estroso Christophe Pelè, piatto ultracontemporaneo e trasversale a culture, come si addice a quest’epoca globalizzata e interconnessa.
Sono l’alfa e l’omega di un volume ambizioso pubblicato dalla più che ambiziosa casa editrice Phaidon, che i libri li fa uscire sempre belli e grandi e corredati di belle immagini: “Quando un piatto fa storia”, sottotitolo “L’arte culinaria in 240 piatti d’autore”, disegni di Adriano Rampazzo. Il volume è stato curato da esperti e scrittori gastronomici attivi in ognuno dei continenti, tra questi c’è anche Andrea Petrini, uno dei nostri food-writers più colti e attenti, senz’altro il più internazionale: la fucina di idee che è stata ed è Gelinaz! è frutto della sua inventiva.
Ancora non sappiamo cosa ne sarà di noi, della cucina e della ristorazione dopo la pandemia ma certamente questa pubblicazione vuole essere uno specchio affidabile anche se non del tutto indiscutibile di ciò che è stato, dei landmark della cucina mondiale.
Ad una prima lettura un italiano potrebbe anche seccarsi leggermente. Ci si attende la pomposa celebrazione della carbonara e invece ci sono le tagliatelle Alfredo, allora magari si confida nel vitello tonnato all’Artusi e invece niente; la lasagna alla bolognese è menzionata solo nella riedizione intimista e croccante di Massimo Bottura (anno di grazia 1995), persino il gelato è attribuito ad altri, chè il sig. Procopio lo aveva portato a Parigi nell’omonimo e ancora oggi celebre Procope sulla rive gauche circa quattrocento anni fa.
Poi il dissenso si mitiga leggermente se pensiamo che il mondo è grande, che tradizioni culinarie antichissime a noi sconosciute fino all’epoca della comunicazione si sono moltiplicate e hanno proliferato: “Buddha che salta il muro” è la zuppa di millenaria tradizione cinese attribuita alla dinastia Quing, primo piatto asiatico menzionato, datato inizi dell’800. E nessuno osa mettere in dubbio l’importanza e la complessità della tradizione cinese.
Soprattutto, nessuno mette in dubbio che un classico è una sperimentazione che ha un successo duraturo e viene perciò riprodotta serialmente, sia se codificata attraverso le mani sapienti delle donne e degli uomini di casa in una società rurale, sia se proviene dall’intuizione di uno chef professionista in compagini sociali più evolute. E questo “classico” assume forme e risonanze differenti secondo il territorio in cui germina.
Così, nessun dubbio che il Club Sandwich, censito presso Saratoga Club House, USA 1894 abbia oltrepassato i confini di Stato per approdare in tutto il mondo e sia diventato a suo modo un classico. Qualche dubbio in più suscita l’inclusione del Black pudding fritto con ostrica, mela e cipolla in salsa di senape di Gerry Galvin , Irlanda, 1989. Che sarà strepitosamente innovativo per l’isola e popolarissimo tra i suoi abitanti, ma tanti semi emozionali in giro per il mondo non ne ha sparsi.
E’ chiaramente un volume destinato al pubblico anglosassone, con massiccia presenza di piatti inglesi, americani, australiani del ceppo asiatico, molti dei quali da tavola calda o da pub, quindi secondo la nostra visione concettuale va preso un po’ con le pinze.
E’ tuttavia un volume colto, ricco di riferimenti, di aneddoti, dal quale si imparano molte cose e si sorride anche. La nostra indole di nottambuli inveterati ha gongolato quando si è letto dei “Pippies con salsa XO” amministrati da Uncle Hung in Australia nei primi anni ’90: i pippies sono le vongole locali (non l’avremmo mai saputo), Uncle Hung un cinese di Hong Kong che puntava sui frutti di mare freschissimi e il ristorante si riempiva di vip super glamour dopo mezzanotte perché “i clienti abituali sanno che gli acquari vengono riforniti di frutti di mare a mezzanotte”.
La selezione dei piatti italiani è un poco bislacca: il primo piatto caldo che si incontra è la pizza margherita, il primo cucinato la coda alla vaccinara (che ha ispirato anche Trippa Milano, dicono), poi c’è l’insalata caprese che lo chef del Quisisana aveva ideato per Filippo T. Marinetti, il Carpaccio di Cipriani per la nobildonna a dieta, il Tiramisu delle Beccherie che uno chef emigrato negli States ritenne l’unico dolce che poteva competere con quelli francesi. Tra un piatto di Alice Waters –colei che ha nobilitato la cucina basic a stelle e strisce- e uno dei Troisgros si vola direttamente alla passatina di ceci e gamberi di Pierangelini, datata persino prima dei piatti classici di Gualtiero Marchesi, presente con il riso oro e zafferano (connubio in forme classiche di “veleno e nutrimento” secondo gli autori) e il raviolo aperto. Dopo Marchesi sono stati ritenuti epocali per l’età di mezzo della cucina italiana la lasagna croccante di Massimo Bottura, Il Cyber Eggs di Davide Scabin, il risotto bianco con capperi di Pantelleria e polvere di caffè di Massimiliano Alajmo. La nouvelle vague italiana è rappresentata da ben due piatti di Enrico Crippa (ritenuto erede dei Bras), così come di Riccardo Camanini e dall’assoluto di cipolle di Niko Romito. Gradita sorpresa in coda, la menzione dei cappelletti di cinghiale e brodo di prugne di Antonia Klugmann, segno che questa ragazza con la sua cucina tecnica ed emozionale al tempo stesso si è fatta notare positivamente nella scena internazionale e potrebbe darci molte altre soddisfazioni.
Dice Andrea Petrini nella prefazione: “ Un piatto emblematico è come un’opera d’arte: quando arriva con un messaggio è una pessima notizia”. L’immediatezza del piacere deve arrivare prima di ogni altra cosa, deve essere buono prima che “sostenibile” per dirla con le sue parole.
Non sappiamo se tutti questi piatti siano così emblematici, senza dubbio apprezziamo l’intento, visto che di messaggi inutili è pieno il mondo anche nei settori di competenza.
- Dimensioni 20,5 x 27 cm
- Rilegatura cartonato
- Pagine 448
- Anno 2020
- ISBN 9788867225255
- Prezzo € 39,90
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