di Carmelo Corona
C’era un tempo in cui il vino era fatto dai contadini. Meglio: dai vignaioli. Ah, il vino del vignaiolo! Una annata veniva bene e un’altra un po’ meno. Ma il vignaiolo non se ne faceva un grande problema. Era una questione “di mestiere”. Doveva accettarlo e basta. Fare il vino, non dipendeva solo dalla “tecnica”. Era la Natura, che anche in cantina, in fondo, dettava legge.
E’ quello che ancora oggi succede in vigne nascoste in pochi magici angoli del pianeta, come Georgia o Borgogna. I contadini, i vignaioli di un tempo, un po’ tecnici e un po’ artisti, con il loro “essere” ed il loro “fare” riuscivano sicuramente a trasferire alla loro opera, per quanto grezza, per quanto imperfetta, quella poesia, quell’anima che nel limpido e perfetto vino moderno, prodotto dai tecno-enologi di oggi, difficilmente ritroviamo.
Questo perché, come diceva il vignaiolo della Languedoc Aimé Guibert, nel film Mondovino, “ci vuole un poeta per fare un buon vino”. Per ogni vignaiolo old fashioned, il proprio vino è come un figlio, ed i figli “so’ piezz’e core” come dicono a Napoli. Senza per questo voler sminuire la sicura professionalità degli enologi moderni, ritengo francamente molto difficile che un moderno enologo, di quelli che operano per 10, 20 o più cantine contemporaneamente, possa trasferire il proprio “cuore” ai tanti vini così prodotti, e mi chiedo se piuttosto il suo lavoro (che spesso viene eseguito da altri suoi collaboratori) non costituisca piuttosto una sorta di “copia e incolla” di una ben definita tecnica operativa applicata a contesti territoriali diversi.
Lo so che molti mi metteranno all’indice, accusandomi di “attacco ingiustificato” agli enologi. Ma si sbaglieranno di grosso. Io ho conosciuto tanti enologi nella mia vita. All’inizio della mia carriera di enofilo appassionato ne frequentavo anche qualcuno. E’ gente simpatica, preparata, a volte persino umile (non molti, a dire il vero). No. Sia chiaro. Io non ce l’ho con gli enologi, in generale. Certo è che negli ultimi 20 anni il loro apporto, che è sempre stato importante, ora è cambiato. Adesso gli enologi sono diventati “determinanti”. E’ questo il punto.
Quella che prima era una importante tecnica di supporto (occhio, ho detto “tecnica”) adesso è diventata la mente e il cuore del sistema. Il cuore? Ho detto cuore? Anche gli enologi hanno un cuore? Ma finiamola! Che cuore può avere un tizio che progetta e fa il vino per 10, 20 50, 100, cantine contemporaneamente e in 5 continenti, e che è talmente occupato per raggiungerti che se vuoi che faccia degli assaggi ti costringe ad incontrarlo a metà strada, in una piazzuola di sosta dell’autostrada, per vederlo assaggiare frettolosamente e freddamente il tuo vino e poi sputarlo sull’asfalto…
Questa è una desolante immagine (residuo di un racconto vero da parte di una conoscente di un ben noto enologo volante italiano), espressiva di quella acciaiosa tristezza con cui la casta dei “flying winemakers” ha permeato di sé il mondo del vino attuale. E se qualcuno proverà a dirmi che non è così, magari mi contrapporrà il fatto che oggi tutte le vendemmie, e quindi anche i vini, grazie ai tecno-enologi, sono buoni. E sarebbe un bell’eufemismo. Io direi tutte uguali. Grazie alla barrique, alla microfiltrazione, alla micro-ossigenazione, ecc., ecc. E questo lo chiamate “progresso” ? Visto che ho trascorso i primi 7 anni della mia vita a Napoli, posso permettermi di chiamare in aiuto il grande principe De Curtis: “Ma fatemi il piacere…”
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