di Luciano Pignataro
L’ultimo decennio è stato segnato dalla crescita mediatica della figura del pizzaiolo artigiano e il fascino del mestiere si è rapidamente diffuso fra i giovani. Ma questo fenomeno è stato solo la miccia di qualcosa di molto più grande, ossia della diffusione delle catene artigianali in Italia e nel mondo. Intendiamoci, non è storia di oggi, ma è in questo momento in cui le pizzerie si aprono ovunque, da Dubai a Tokyo, dall’Australia a Singapore, per non parlare dell’intero continente americano dove la pizza è una ossessione, che si pone la centralità del lavoro artigianale come valore capace di produrre reddito e di attrarre anche importanti fondi di investimento.
Ma come replicare questo valore? Come garantire al tempo stesso affidabilità e capitale umano all’infinito? Sino a qualche anno fa la risposta sembrava essere il processo di industrializzazione del prodotto finale servito, secondo il modello anglosassone, sempre uguale in locali sempre uguali da personale sottopagato e non qualificato.
Ora invece la risposta autentica è quella di fare formazione e impegnarsi sulla qualità dei prodotti utilizzati. Questo, in sintesi, il messaggio emerso in due giorni di lavori a Madrid nel corso del Primi Summit Mondiale della Pizza organizzato da 50 Top Pizza e da Mammafiore, uno dei più importanti distributori di prodotti italiani di qualità in Europa.
Per la prima volta della storia i protagonisti delle catene artigianali si sono ritrovati insieme, dalla più grande come Alice alla piccolissima Giardino degli Dei, dalle napoletane Fratelli La Bufala e Rossopomodoro alle nordiche Fra Diavolo e Pizzium passando per i modelli più diversi, quello per tradizionale per gemmazione di Madison alla replica fedele della cilentana DaZero, da quelle giocate sulle figure leader come Gino Sorbillo ed Enrico Porzio a quella basate sul Brand come Michele in The World, vincitrice della classifica di 50 Top Pizza.
Si tratta di un movimento pazzesco, con centinaia di milioni di fatturato e migliaia di locali e di posti di lavoro che parlano italiano grazie alla maggior parte dei prodotti usati. Insomma, oltre la poesia, un fenomeno gastronomico rilevante dal punto di vista culturale ed economico. Lo ha capito bene la città di Madrid che ha accolto nel migliore dei modi il convegno: Almudena Maíllo, assessore al turismo della capitale, ha aperto i lavori sottolineando il valore della gastronomia per il turismo di qualità, settore in cui Madrid sta investendo come e più di Copenhagen e Stoccolma.
Quanta differenza con quello che accade in Italia dove è difficile trovare un rappresentante istituzionale che arriva puntuale: da noi il ritardo ai convegni dei politici è cronico perché la mentalità feudale è che le persone importanti devono farsi aspettare dalla plebe. Ma non solo, è difficile trovare qualcuno che entri nel merito con un discorso pronunciato anche in inglese e che non vada via come i cantanti di piazza appena terminato, che si fermi ad ascoltare fino alla fine gli interventi. Atteggiamento da noi più unico che raro. Una forma di rispetto per gli ospiti ma soprattutto per le istituzioni che rappresentano.
Ecco, questo atteggiamento spiega perché chi arriva a Napoli non trova nulla che racconta la storia della pizza nella città dove è nata. Cosa si aspetta a creare una Fondazione per allestire un vero Museo della pizza nel cuore cittadino? Perché cose facilmente realizzabili altrove da noi sono così difficili? Forse perché siamo un insieme di intelligenze individuali che non riescono però a diventare una grande intelligenza collettiva dotata di memoria e di capacità progettuale sul futuro.
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