Già il titolo preannuncia che siamo in presenza di uno scritto dotto ed ironico allo stesso tempo. Mario Avallone, gastronomo e studioso di grande e sussurrata cultura, espressa più nei piatti che nelle parole, non ha sempre fatto il cuoco. Da impiegato di banca, attraverso i più disparati passaggi è arrivato a coronare il suo sogno: il cuoco indipendente sorretto da “dolci sponsor” così nel libro si riferisce alla clientela che divide per divertenti categorie, perché il suo lavoro ha un che di antropologico, lo studio della persona per realizzare il piatto. Il libro presenta, con una deliziosa raccolta di ricette nel finale, in qualche modo “il passato” attualizzato dalla cultura e dalle contaminazioni contemporanee. La posizione del locale – ci dice l’autore – è strategica, Via Costantinopoli è forse oggi una delle strade più antiche e più cosmopolite di Napoli. Il libro – la veste cartacea è fondamentale – perché s’identifica con Avallone la cui biblioteca è stracolma di trattati di cucina e testi storici d’ogni sorta, è lontano mille miglia dal mondo del 2.0, della cucina trash televisiva e da quello di certi food bloggers.
Il percorso seguito dall’autore prima di preparare un piatto è complesso: alle spalle ci sono studio, documentazione , ricerca, confronto e prove, il risultato deve essere semplice ed eccellente, mirare all’essenza della materia prima come nel suo mitico “‘O Roje“.
L’autore ha svolto una lunga opera di recupero del gusto, anche attraverso una lunga permanenza in Sicilia alla scoperta di prodotti e sapori che gli hanno fatto decidere di voler cucinare per tutta la vita.
La sua non è una semplice e banale rivisitazione della cucina delle nostre mamme e nonne, no, si tratta di un operazione studiata, pensata, vissuta, sperimentata giorno per giorno, spinto dal motore eccezionale della passione e della curiosità. Non abbiamo qui una semplice raccolta di ricette , o racconto di tipologie di clienti, si tratta di una narrazione di una Napoli guardata di traverso con ironia e rabbiosa sofferenza. Nei comportamenti e nella cucina dell’autore, ritroviamo sempre un guizzo geniale, ‘lazzaro’ e al tempo stesso elegante del fare. Il termine improvvisazione nella sua accezione negativa non esiste nel vocabolario dell’ autore, se non per illuminazioni improvvise rispetto al modo di preparare o servire un piatto. Avallone ama conversare con i suoi clienti – amici, ma non comincia mai lui, lancia provocazioni con frasi spiritose, riflessive e storiche scarabocchiate con gessetti colorati sulle enormi lavagne del locale insieme al menù. Per lui la scrittura è fondamentale perché è equanime, laddove il cibo può essere anche un disastro. La sua croce sono i clienti che non mangiano, che non vogliono sperimentare, condividere, la sua delizia sono invece le coppie che lui definisce “anziane” insieme da molti anni, che a tavola parlottano fitto, fitto e magari si scambiano assaggi dei rispettivi piatti. Il nostro cuoco guarda sempre avanti, non si lascia scoraggiare dai meandri della burocrazia che, soprattutto nel settore della ristorazione è diventata una rete a maglie fitte; lui ha persino imparato a districarsi, ammettendo la difficoltà enorme per giovani che oggi vogliano avviarsi a questa professione.
Sollecitato dalle domande dei compagni di tavolo e della sala, risponde di riconoscersi nella semplicità, nella cucina del ‘togliere’, nel mangiare in trattoria , o addentare una pizza fritta all’impiedi per strada. Il suo vivere e cucinare a Napoli è un viaggio continuo e traverso tra passato, presente e futuro. Nulla è improvvisato, tutto è pensato da un uomo che ha deciso di fare il cuoco rimanendo vincolato ai suoi principi e al suo carattere: Mario Avallone è libero, timido e, soprattutto discreto, come i suoi piatti.
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