Cioé Capri, Cortina, Taormina, Positano
Quella che vedete non è una immagine di un Mall americano, ma il centro di Porto Cervo. Di recente ho fatto un salto in zona nel corso del quale ho accumulato qualche riflessione di cui ora mi libero.
Perché è vero che la località sarda rientra in quei posti completamente avulsi dal contesto territoriale, riammesso solo come folk per gli ospiti stranieri come le hawaiane aspettano i turisti a bordo pista, ma trovo profonde differenze con Cortina, Taormina, Positano e Capri.
A ben vedere, tanto per iniziare, non ci sono ristoranti degni di nota, comunque non a livello di Tivoli, La Capinera, Casa Grugno, San Pietro e L’Olivo. Si sa, quando manca cultura gastronomica c’è qualcosa che non funziona nel backstage culturale di una regione o di un comune.
Ma c’è ben altro di fondamentalmente diverso, ed è l’assoluta finzione del tutto: una sorta di set cinematografico che ti da l’idea di dover essere smontato da un momento all’altro. Un passeggio di griffe, di cui persino i vini sono ben abbinati, come in un outlet di lusso dove in genere si trascorre l’intera giornata.
D’accordo, Cortina e le altre località non sono certo il must della spontaneità, però il loro essere turismo, il loro essere diventato punto di attrazione per i ricchi del Pianeta in una fase storica precisa, ha comunque alle spalle una storia non inventata, una vocazione compiutamente espressa, spesso secoli e secoli di comunità al lavoro. Il loro esistere, pur con gli eccessi e le stramberie dei vip, ha sempre profonda relazione con il resto del territorio, ne finisce in qualche modo per diventare vetrina di lusso.
Porto Cervo assolutamente no. Non c’era nulla prima, appena trent’anni fa, se non la bellezza incommensurabile dei luoghi. Stare qui in vacanza significa vivere una realtà esattamente opposta alla cultura, alle tradizioni e alla storia millenaria sarda.
E’ dunque, davvero espressione di un bisogno della nuova ricchezza, non quella della terra e dell’industria necessariamente legata ai luoghi fisici dell’attività, tanto meno la borghesia delle professioni liberali, ma quella della finanza che vive nei tubi catodici dei computer, incline agli eccessi essendo priva di unità di misura umana. Ricchi per la prima volta adorati dai poveri, senza nemici perché non danno l’impressione di rubare il tempo delle persone come gli agrari e i padroni delle fabbriche.
E in effetti se gli aristocratici di un tempo, ma anche la borghesia imprenditoriale assistita, volevano vivere il meglio di ciò che c’era, ora i nuovi ricchi si costruiscono direttamente la loro Disneyland dove spassarsela.
Il suo essere nulla, in fondo, è la forza di Porto Cervo.
E questo nulla è l’infinito vuoto in cui dilaga la rapacità dei nuovi signori della giungla sociale, quella che hanno costruito come modello produttivo dal quale scappano per andare a vivere nei loro paradisi artificiali.
E mentre i ricchi catodici vanno a Porto Cervo, i loro poveri non frequentano più le spiagge di Ostia e di Mondragone, ma volano a Sharm e Gerba, dentro strutture altrettanto artificiali ma, ovviamente, molto più economiche.
Due facce della stessa medaglia: il pensiero debole, flebile, etereo, fulminato.
Come le tv che hanno creato e che si guardano beati, dove non si capisce da quale parte dello schermo c’è la realtà carnale.
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