di Tommaso Esposito
Appena qualche rigo viene scritto a illustrazione di etimo e qualità della pommadora o pummarola nei dizionari della lingua napoletana compilati sul principio del 1800. Il Puoti, ad esempio, ce ne lascia immaginare la figura che è “rotonda e di color rosso” e ci dice soltanto che “serve per vivanda e condimento ancora di vivanda”. Più stringato e laconico si dimostra il D’Ambra, che in altre occasioni è stato invece molto più ricco di notizie e citazioni letterarie: “Pommadora sostantivo femminile, pomidoro” E basta. Bisogna aspettare il 1887 per reperire nel Vocabolario di Raffaele Andreoli qualche parola in più. E Pummarola diviene “Pomodoro. Pummarola a fiaschella, pomodoro a pera. Conserva de pummarole, conserva di pomidoro, ma ordinariamente, così in napoletano come in toscano, Conserva senz’altro. Pummarulella, pomodorino nome d’una specie di pomodoro più piccolo, pomodoro a grappoli.”
Anche nei ricettari ottocenteschi il pomodoro non fa bella figura. Ha un ruolo marginale. Tutto questo è avvenuto perché il pomodoro, in realtà, per lunghissimo tempo non è stato il protagonista nella cucina napoletana, nonostante il suo uso sia diventato poi tanto comune e significativo da diventare quasi un emblema e un simbolo. Del resto quando arrivò nella penisola iberica il tomati importato dai conquistadores delle Nuove Indie fu considerato soprattutto una pianta ornamentale dai bei frutti dorati, i quali talvolta diventavano rossi. Ecco, fermiamoci per un attimo a parlare proprio del pomodoro giallo che tanto va oggi di moda.
Questo pomo d’oro o pomo dell’amore sembrava possedere virtù medicamentose e afrodisiache. Il primo a sdoganarlo tra i cuochi napoletani fu Vincenzo Corrado sul finire del 1700. Lo descrive di color zafferano e consiglia di pelarlo passandolo per la brace prima di cucinarlo in vari modi, giacché aveva una buccia molto resistente. A Napoli si cominciò pure a coltivarlo in vaso come se fosse una pianta ornamentale per averlo disponibile durante l’inverno.
Accanto a questa coltivazione domestica si diffuse la tecnica del piennolo, che deve il suo nome alla consuetudine dei contadini vesuviani di intrecciare, intorno ad uno spago legato a cerchio, i pomodorini, sino a formare un grande grappolo. Il piennolo, appunto, detto anche spunzillo, o spognillo, cioè piccola spogna così come specificato nel dizionario di Altamura: “grosso pendolo di pomodori che si tiene sospeso alle finestre fuori stagione”. Lo spunzillo piennolo ha infatti bisogno di un ambiente asciutto e ventilato. Soltanto facendo così i pomodorini potranno essere conservati a lungo, staccati di volta in volta e consumati nei mesi successivi. La pommarolella de mazzo o de piennolo o de spunzillo gialla, dunque, è speciale.
Non soltanto probabilmente ricorda i colori dei primi tomati, ma ultimamente sta quasi superando in termini di preferenza lo stesso pomodorino del Piennolo del Vesuvio di colore rosso che invece ha ottenuto la Dop.
La riscoperta di questo ecotipo è divenuta quasi leggendaria. Pare che tutto sia capitato per caso quando durante la raccolta del piennolo rosso un contadino, chiamato il nonno di Giulia, si è accorto che una delle piante aveva i frutti giallo oro. E così questa varietà è stata chiamata GiaGiù cioè il giallo di Giulia. Raccolti i semi, grazie anche a un progetto di ricerca a cui hanno contribuito l’agronoma Patrizia Spigno e la prof. Amalia Barone della Facoltà di Agraria di Portici, ormai la coltivazione è ripresa e si è diffusa largamente. E poi non si tratta soltanto di gusto. Questo pomodorino giallo sembra essere più ricco in vitamine e antiossidanti di quello rosso. Cosicché ogni qualvolta la buona cucina tutela e migliora la salute il successo è più che assicurato.
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