di Giustino Catalano
Devo ammettere che quando Luciano Pignataro mi ha chiesto di scrivere del nostro incontro mi sono davvero sentito spiazzato. Mi sembrava di ridurmi ad un'autocelebrazione di ciò che con gli amici Francesco e Salvatore Salvo avevamo fatto negli ultimi due anni e mezzo di cammino insieme.
Poi, riflettendoci, ho compreso che raccontare un'esperienza non è autocelebrazione, ma mettere a disposizione di altri il proprio cammino affinché sia spunto di ulteriori approfondimenti o monito a non commettere uguali errori.
E qui la prima precisazione, doverosa, onde evitare che questo post scateni discussioni inutili e far sì che sia costruttivo su un argomento tanto caro a noi campani: la pizza napoletana.
Consultando il vocabolario della lingua italiana, sperimentare ha il significato di “sottoporre a esperimento qualcosa, allo scopo di valutarne la qualità, le proprietà, le capacità e similari“. In senso figurativo, poi, addirittura “tentare, provare“. Questo è ciò che abbiamo fatto e continueremo a fare.
Altra non meno importante precisazione è che l'impasto di una buona pizza non è strettamente legato ad un solo componente o parametro (a titolo esemplificativo: l'uso del lievito madre o le ore di lievitazione), ma all'insieme di una serie di differenti fattori che al loro variare rendono variabili tutti gli altri. Acqua, durezza della stessa, sua temperatura, tipologia di farina, grado di maturazione della stessa, tipologia di lievito (madre, birra, pasta di riporto), uso o meno di starter differenti, livello di idratazione, numero di ore di maturazione, ceppi di lieviti selezionati o autoctoni relativi all'ambiente dove si svolge la lavorazione e, nel caso di lieviti autoctoni, la loro maggiore o minore forza, finiscono con l'essere solo alcuni dei parametri che spostano l'ago dall'empirico alle prove con una quasi scienza. Il “quasi” è d'obbligo in assenza di strumenti scientifici adeguati alle singole misurazioni.
Lo scopo di sperimentare con Francesco e Salvatore è stato quello di reperire, se esistente (perché la sperimentazione può anche condurre a un “nulla di fatto”), un impasto non solo al livello migliore possibile, ma che fosse anche adattabile alla grossa mole di lavoro (oltre 20.000 pizze) che la Pizzeria sostiene mensilmente.
Inutile raggiungere un risultato che è applicabile a 50 pizze a sera se non puoi mettere tutti nella condizione di fruirne!
La finalità della sperimentazione non può e non deve essere, a mio avviso, quella di creare un modello perfetto da esporre, ma quello di offrire a tutti il miglior risultato possibile.
E che tale risultato sia replicabile anche a grandi numeri non è solo una conseguenza naturale di un'attività economica, ma anche un “diritto” di tutti i consumatori, soprattutto nel mondo pizza, ossia in presenza di un “alimento del popolo”.
Partendo da tale presupposto ci siamo anche chiesti se fosse giusto seguire la corrente che demonizzava il Lievito di birra a favore del lievito madre, atteso che in un impasto come quello base che viene servito in Pizzeria se ne usa 1/10 di grammo/kg.! Il Lievito di birra, giusto per quei pochissimi che non lo sanno, è un prodotto naturale. Ci si fa, giusto per citare un esempio, la birra.
Detto ciò, giorni fa, nel timore che stessimo innamorandoci del nostro lavoro di sperimentazione rischiando di “perdere la bussola”, dopo due anni di prove e tentativi, di investimenti in impastatrici da 2 kg., di reperimento di farine e miscelazioni di esse, eccetera, ho pensato di chiamare degli amici (Luciano Pignataro e Marina Alaimo) per mangiare 6 pizze al buio e sottoporle al loro giudizio.
E qui l'ultima delle precisazioni per chi è utente e non un addetto ai lavori: quando si fanno queste cose ci si diverte e non vi è alcun clima austero e cattedratico. L'ambiente è amabile e rilassato e tra un boccone e l'altro i discorsi sono i più disparati. Insomma, per dirla in parole povere, non ci si prende troppo sul serio anche se si fa attenzione a cosa i nostri sensi ci dicono.
Ma torniamo al test. Affinché fosse il più coerente possibile, abbiamo mantenuto due parametri fissi (con una sola eccezione) scegliendo 6 tra le oltre 200 varianti testate sinora.
Blend di identiche farine (Caputo Super Gialla, Caputo Special Verde e Caputo Marrone Gnocchi) e stesso tempo di lievitazione per tutti gli impasti (12 ore).
Le prove al buio, sottoposte all'assaggio tutte con una pizza bianca con mozzarella di bufala come farcitura, sono state le seguenti:
- impasto con lievito madre starterizzato con yogurt di bufala bio (Barlotti) e rinfrescato con farina artigianale da Agricoltura a Lotta integrata francese (unica eccezione per le farine);
- impasto con lievito madre starterizzato solo con acqua e farina (Caputo Marrone Gnocchi) a temperatura ambiente con 1 rinfresco fatto quasi 3 ore prima dell'impasto;
- impasto con lievito di birra spinto a circa il 70% di idratazione, attuando una diversa tecnica di impastamento e ritardando lo staglio;
- impasto con lievito madre starterizzato solo acqua e farina (Caputo Marrone Gnocchi) senza rinfresco (ultimo rinfresco effettuato il giorno prima) e idratazione spinta al 70% come sopra;
- impasto attualmente in uso in pizzeria servito a tutti i clienti (Lievito di birra e solito Blend di farine (Caputo Super Gialla, Caputo Special Verde e Caputo Marrone Gnocchi);
- impasto con lievito madre starterizzato ad acqua e farina (Caputo Marrone Gnocchi) senza alcun rinfresco.
Le prime due prove (1 e 2) sono rappresentative. Avevano, in effetti, lo scopo di far capire l'evoluzione della pizza Salvo con un'acidità più marcata di quella che stiamo considerando, ovvero un lievito in cui c'è, per via dello yogurt, una maggiore fermentazione lattica, oppure, per via del rinfresco ravvicinato, una maggiore acidità.
Ordinariamente, in pizzeria si mantiene più attenzione ad una fermentazione con un'acidità moderata (anche in coerenza con la tradizione che voleva si usassero forme di pasta di riporto) poichè, secondo quanto ricavato da queste esperienze, una presenza di acidità (lieve, ma non invasiva) può aiutare gli zuccheri e le proteine presenti nell'impasto a raggiungere una maturazione ottimale nelle loro reazioni (per il tipo di farina ed il nostro normale tasso di idratazione abbiamo tanti zuccheri e proteine semplici), sviluppando una maggiore aromaticità della pizza.
Il blend di farine è stato pensato per garantire non solo digeribilità, ma anche per conferire maggior gusto alla pizza.
Le 3 farine sono farine medio deboli (w220, max 11,5% proteine) che a punto di maturazione ottimale apportano molti zuccheri e proteine semplici che, reagendo tra loro, danno alla pizze molte caramellizzazioni e reazioni di Maillard .
L'utilizzo della farina gnocchi (farina molto raffinata x pasta fresca), ad esempio, ha un quantità di proteine maggiori per la sua modalità di macinazione che contribuisce maggiormente a quanto detto.
La verde, essendo una farina destinata alla lavorazione del pane casareccio (tipo 0), caratterizza maggiormente il sapore della pizza.
L'alta idratazione è una caratteristica della tradizione familiare dei Salvo, che trova conferma nella naturale capacità di manipolazione di impasti al limite della lavorabilità per via della loro forte estensibilità ed umidità.
La pizza 5, quella servita abitualmente, ci serviva come punto di confronto e la 4 era un primo test per mettere assieme l'esperienza della pizza 3 e 6.
Detto ciò tra una chiacchiera e l'altra, tra una battuta e una sonora risata, osservavo Marina che sedeva di fronte a me e sbirciavo sul foglio di Luciano, via via che le pizze si susseguivano.
Leggere gli appunti di Luciano è come leggere una prescrizione medica (la prossima volta che mi incontra mi mena!) ma mi aiutava un voto complessivo che metteva ad ogni capo. Otto meno, otto più, otto…
Quale è piaciuta di più a Big Luciano? La 5, ossia quella che si serve nella norma! Marina, come me, invece, ha prediletto la 4.
Le sperimentazioni continuano e sono aperte a tutti coloro vorranno contribuire. Il cibo va vissuto giocosamente e per il piacere che dà.
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