Pizzam et circenses: quanto sono tristi i concorsi culinari, soprattutto se acrobatici

Pubblicato in: TERZA PAGINA di Fabrizio Scarpato

di Fabrizio Scarpato

Manifestazioni periferiche. In tutti le arti e mestieri è facile imbattersi nella rappresentazione vuota, nello spettacolo di contorno all’evento, quando puoi ancora fare due chiacchiere, comprare i pop corn e bere l’ultima birretta. Oppure andartene. Fenomeni secondari, assolutamente rispettabili per l’impegno profuso da parte dei protagonisti, ma destinati a restare malinconicamente nell’anonimato. Vale per certi turni di centometri da dieci e otto nei meeting di atletica, e vale per l’ennesimo titolo mondiale di una delle centomila sigle del pianeta boxe, in cui illustri sconosciuti, che non si sarebbero nemmeno seduti all’angolo contro Marvin Hagler, finiscono con l’ostentare, tumefatti, una qualche vistosa pataccona. Vale per i cantanti neomelodici uzbeki del fu EuroFestival, vale per le partite senza punti in palio. Può valere persino per certi blogger dalla tastiera facile, e ho detto tutto.

Accade così che lo sfavillar dei lustrini e delle messe in piega, la sottile tristezza delle tinte corvine dei capelli del bravo presentatore, faccian da corona allo sfinimento che mi coglie ogni volta che sento o leggo di mirabolanti concorsi culinari. Sarabande di campioni del mondo, arcipelaghi di specialità, un florilegio di sigle e associazioni, una cornucopia di premi, sfilze di piatti che sembrano appena usciti da un rinfresco di nozze degli anni sessanta, una serie interminabile di date, turné, appuntamenti, eventi, meeting, giurie, gemellaggi, viaggi e miraggi, tutto nella unificante e nobile finalità di sbandierare il nome dell’Italia, dell’italianità, dei prodotti italiani, dei cuochi italiani, dei pizzaiuoli italiani, degli emigrati e degli emigranti, che sono tanti. Poropòn… poropòn… poropònpon pon pon po’. Boom.

Un inserto di Repubblica dedicato a Host 2011 ( il Salone Internazionale dell’Ospitalità Professionale, tenutosi di recente a Milano) scava il fossato, forse incolmabile, tra il mondo della cucina propositiva contemporanea e quello della ristorazione associativa, che è rimasto un po’ indietro, defilato, in cui l’occhio di bue, il faro dello spettacolo col quale si tenta di illuminarlo, determina solo un malinconico effetto circense.

All’ombra di una lunga intervista a Davide Oldani (al quale con tutto l’affetto possibile qualcuno dovrebbe consigliare un salutare scarto barbarico rispetto alla sua cucina pop ormai un tantino datata), alcuni pezzulli d’appoggio raccontano di un’Arena del Gusto voluta dalla A.P.C.I. (Associazione Professionale Cuochi Italiani) che ospitava due importanti competizioni, l’Italia nel piatto l’Italia nel finger food, laddove mi gioco il palesarsi del classico tricolore, mozzarella, pomodoro e basilico. Accanto, la Fipe organizzava il convegno “La ristorazione che cambia: innovazione tecnologica e mercati in divenire”, si spera senza spaghetti e mandolino. Non da meno il concorso mondiale (udite, udite) della W.A.C.S. (Società Mondiale dei Cuochi), con la selezione italiana per Junior e Senior Global Chef, figure che mi mancavano (dovremo aspettarci tra poco lo chef glocal? Massì, miei piccoli amici). Faceva da corollario il premio Internazionale Award del Pasticcere in cui sei cuochi si sono cimentati nel realizzare dolci partendo da ingredienti segreti racchiusi in una “magic box” (qui un ooohhhhh del pubblico pagante è doveroso, non foss’altro per l’originalità). Da qualche parte, si dice nei corridoi, il presidente della F.I.C. (Federazione Italiana Cuochi), assiso in sullo scranno e abbarbicato a una stilografica scarica, tuonava “Basta tv” (?) e soprattutto “Basta Premi”, anche se a pensarci bene qualche risata tra i partecipanti ai millemila concorsi si poteva distintamente avvertire, confusa tra il tintinnio di medaglioni, coccarde, gagliardetti e foto ricordo in posa a tutto toque.

Ma sul mio cuore pesa il tema “ Pane, Pizza e Pasta”. Pàssino pane e pasta, pàssino corsi, seminari, degustazioni, lievitazioni e focacciamenti (tanto noi abbiamo il numero di telefono della signora Gaetana di Acerra…ecchevvofa’), ma davvero mi si stringe il cuore quando parliamo di pizza.

Il primo singulto lo provoca la notizia del XIV Campionato Europeo della Pizza che ha visto una sfida non meglio specificata tra pizzaiuoli del Vecchio Continente. Pazienza. Il singulto diventa tachicardia quando apprendo, su queste pagine, che il nobile rampollo di una antica famiglia pizzaiola partenopea si è laureato nientepopodimenoche campione mondiale di calzone ripieno, battendo francesi, indiani e tunisini in un agguerrito confronto sotto l’egida della U.E.P.T.R. ( Unio…lasciamo perdere). L’affanno si fa insostenibile nel leggere la pletora di categorie in gara: Pizza fantasia, Pizza dessert, Margherita scenografica, Pizza senza glutine, Pizza innovativa, Pizza tandem e Pizza artistica, Calzone doc, Pizza pala, Pizza teglia e Pizza fritta…e altre millanta che tutta notte canta, tranne la più importante: la Pizza pizza.

Alla fine stramazzo di fronte alla prospettiva di una fantasmagorica esibizione della Squadra Nazionale Acrobati Pizzaioli ( S.N.A.P.), anch’essi campioni dell’Orbe Terracqueo e della Prima Galassia: si fantastica di show vertiginosi con lanci spettacolari di tonde. Immaginando con trepidazione (per via degli spigoli) il lancio delle quadrate e delle triangolari, mi chiedo quale sia il rapporto tra un signore atletico, che, dopo aver allenato il braccio con strofinacci bagnati, fa roteare impasti non commestibili di manitoba, e la pizza che arriva, desiata e fumante, nel mio piatto; quale rapporto tra i dervishi tourneur della lievitazione e la ricerca spasmodica di una pizza ben fatta, soprattutto lontano da Napoli. Va bene stendere l’impasto con maestrìa, ma io fatico a pensare a Coccia, Sorbillo, Pepe e colleghi mentre fanno roteare i lenzuoli di pasta; forse Bonci, dato il fisico, ha dei trascorsi, oppure li hanno tutti, per scuola, e io non ho capito nulla: può capitare, anche spesso per la verità, e nel caso faccio ammenda, prillando su un dito un misero panigaccio.

Sono convinto, però, che sia più difficile mettersi alla prova con l’alveolatura del cornicione di una margherita, che nascondersi dietro una tonda tirata a due metri. L’acrobazia è molto distante dall’artigianato, la qualità e l’identità non si misurano in diametri e medaglie, il funambolismo non si identifica con la classe, tantomeno col gioco di squadra. Buttate lo sciatorino di free style giù per la Streif di Kitz, poi vediamo se ha ancora voglia di gigioneggiare. Il Free Style è disciplina olimpica, si dirà: ebbene sì, chévvelo dico affà, hanno inventato anche le Olimpiadi della Pizza. Altre patacche. Sarà, ma parafrasando Lucio Dalla (perché non mi permetterei mai di farlo col Fantozzi della Corazzata Potemkin) lo dico, qui e ora: gli acrobati della pizza sono di una noia mortale.

E ora uheggiatemi. Come il tenente John Dunbar sciolgo le briglie e offro il mio petto al fuoco nemico, lanciando il mio cavallo ventre a terra, le braccia larghe, gli occhi chiusi. Ma per favore usate pallottole di pasta lievitata almeno settantadue ore, fiondatemi lucenti pomodori San Marzano (quelli marci non valgono), scudisciatemi con morbide alici di Cetara , bombardatemi con esplosive fiordilatte dei Monti Lattari o candide trecce della piana di Paestum. Almeno soccomberò contento. Tuttalpiù mi ritirerò tra gli indiani Hirpynos, che son silenziosi (tranne uno), bevono Fiano e son poco inclini al gareggiare: mi chiamerò Balla coi Lupi e avrò come solo amico un bastardino di nome Due Calzini. Hai visto mai che non incontri Alzata con Pugno.


Exit mobile version