Ieri ha tenuto banco l’intervista, da noi rilanciata, che Antonio Savarese di foodmakers.it ha fatto ad Alessandro Condurro, ultimo rampollo di una generazione che ha determinato uno degli stili della pizza napoletana, cornicione basso e disco ruota di carro.
Come era prevedibile ha diviso i lettori (oltre ventimila!) e sui social si è scatenato l’inferno.
Il senso vero del mestiere di giornalista è dare conto di tutte le posizioni, il che non significa sposarle. Questo viene compreso sempre di meno in un momento in cui l’informazione, anche nel campo gastronomico, tende a confondersi con la promozione e la comunicazione.
Per cui ci tengo a ribadire questa banalità.
Il punto di vista di Condurro è comunque interessante perché evidenzia al tempo stesso i limiti dei fenomeni che critica e anche i propri.
Ora prendetevi un caffé, cinque minuti e leggete cosa penso di questa intervista.
Vediamo.
1-Sbaglia Alessandro quando afferma che si è esagerato a parlare di pizza, nulla è mai esagerato se fatto con competenza. Sarebbe come a dire che si parla troppo di calcio in tv. Più se ne parla e meglio è. Anzi, per decenni questo argomento è stato tabù, non rientrava neanche negli interessi gastronomici e solo le guide Espresso e Osterie d’Italia hanno riservato uno spazio in tempo non sospetti alla pizza. Purtroppo mancano dei confini precisi che facciano chiarezza, a cominciare dall’oggetto. Chi è il pizzaiolo? Come si forma? Al momento non c’è una risposta istituzionale perché non esiste in Italia questo profilo nella istruzione pubblica e questo ha lasciato il campo ad un business enorme di privati che a loro volta non hanno titolo di studio.
Questo comporta una debolezza culturale di chi fa questo lavoro, parlo della media ovviamente, che non avendo basi, spesso orecchia e approfondisce sui social ed è molto soggetto alla potenza comunicativa di chi ha interesse a spingere alcuni prodotti (ad esempio la farina integrale). Di qui anche fenomeni caricaturali, a cominciare da alcune giacche piene di sponsor che li fanno somigliare a piloti della Formula 1.
Insomma, il primo equivoco di fondo è proprio la formazione, ossia il pizzaiolo impara il mestiere praticandolo, senza studiare prima.
2-La pizza nasce a Napoli perché è un prodotto urbano, è cibo da strada vero. Che appaga lo stomaco e regala il carburante per la giornata. Non dimentichiamo infatti che Napoli sino alla prima guerra mondiale è stata la città più popolosa d’Italia e una delle più grandi d’Europa tra il ‘600 e tutto l’800, quindi qua la pizza nasce dalla necessità di avere un prodotto a cottura rapida su cui mettere qualcosa di saporito sopra. Pomodoro, un po’ di formaggio, un po’ di grasso. E’ l’evoluzione del pane arabo usato come piatto che si mangia, un cibo tipico del Mediterraneo perchè ha il grano come base. Fuori Napoli invece la pizza nasce dal pane che diventa pizza e lo si capisce dai forni. Si tratta dunque di due prodotti simili ma totalmente diversi e anche il loro affacciarsi nella modernità, anzi, nella contemporaneità, è diverso. Perché la pizza napoletana si è aggiornata grazie a Enzo Coccia, Gino Sorbillo e ai fratelli Salvo. Si è aggiornata sulla lievitazione del prodotto e sulle componenti da usare restando fondamentalmente uguale ma migliore. La pizza nata dal pane, o dalle focacce, ha avuto una evoluzione grazie ai Bonci, ai Padoan, ai Bosco, ai Pepe che hanno lo stesso ragionato sulle lievitazioni e sugli ingredienti.
C’è una differenza profonda: nel primo caso pomodoro, mozzarella, olio e farina si fondono in un sapore unico in cui le caratteristiche di ciascun componente rimbalzano e aiutano gli altri trasformandoli. Nell’altro caso invece i componenti restano ben distinti. Ecco perché nel primo caso margherita e marinara sono le due espressioni assolute e inarrivabili (con alcune varianti tipo la cosacca, la bianca o con le alici e origano) mentre nel secondo caso, essendo la componente panosa più rilevante, meglio si adatta a un topping più elaborato e complesso. A questo si riferiva Condurro quando parlava della mortadella.
Si tratta di due eccellenze, ovviamente nelle espressioni più alte che diventano caricature quando questi stili finiscono in mano a degli improvvisati. Se non si resetta il ragionamento su questa base di differenziazione non ci si può capire.
Non si tratta di creare una gerarchia di sapori, ognuno ha il suo gusto e magari è bello passare da uno all’altro, ma di una differenziazione di stili netta e precisa anche se non codificata. Ma c’è un però: la pizza napoletana ha una base di consumo storico territoriale di massa con oltre 1500 pizzerie con forno a legno operanti in città ed è per questo che ha una spinta propulsiva enorme anche fuori Napoli. E non solo perché le prime pizzerie in Italia con forno da pizza sono state aperte da napoletani, ma perché proprio il successo della pizza privilegia l’elemento territoriale a quello della pizza d’autore come modello replicabile (leggi così il successo crescente di Rossopomodoro). Da qui si spiegano le continue aperture in Campania, al Nord e adesso anche all’estero.
3-Le pizzerie storiche napoletane restano un riferimento irrinunciabile per chi vuole affrontare il fenomeno pizza. Chi non ha mani mangiato da Starita, Capasso, Cafasso, Gorizia, Da Attilio, Di Matteo, Cacialli, Pellone, Oliva, Carmnella, Masardona, Umberto, Prigiobbo, Port’Alba è come quelli che parlano dei rossi dell’Alto Piemonte senza conoscere le Langhe: fa figo ma sono ignoranti.
Restare eguali a se stessi in un mondo in cui c’è dinamismo senza movimento spesso significa trovarsi davanti. Io penso sempre al caso del vino quando alcune aziende storiche furono messe alla berlina negli anni ’90 perché non usavano barrique ed erano ferme ai vitigni regionali. A un quarto di secolo di distanza cosa vediamo? Che l’Italia è rappresentata all’estero o dai Supertuscans, ossia da aziende che hanno innovato profondamente usando uve internazionali in una zona dove non c’era tradizione e creando quindi uno stile nuovo usando perà il modello bordolese, oppure dai grandi classici come Barolo, Brunello, Amarone, Prosecco che affondano le loro radici nella storia vitivinicola dei rispettivi territori.
In Italia abbiamo la pizza napoletana e quella d’autore sorta in territori senza tradizione come è logico che sia e in risposta alla scarsa qualità dell’offerta, poi sarà il tempo e il mercato a decidere. La cosa importante è quella di non avere la pretesa di imporre un modello. In questa storia, e torniamo al vero punto debole dell’intervista di Alessandro Condurro, le pizzerie storiche pagano l’immobilità non sul prodotto ma sulla comunicazione. Se non fosse stato per Sorbillo, e per tanti giovani pizzaioli che, anche con le loro ingenuità, si sono spesi e si spendono su Facebook, la pizza napoletana non avrebbe fatto tanta simpatia sui social dove si combatte la vera battaglia del gusto nelle nuove generazioni. Già, perché chi ha già trent’anni, ormai è formato. E su questo fronte le pizzerie storiche hanno la grande responsabilità di essere state divise, di non aver spinto abbastanza per tutelare il marchio, chiedere l’istituzione della figura del pizzaiolo negli alberghieri. In una parola, forti del passato hanno vissuto il presente. E se non fosse stato per Coccia e i Salvo, e adesso anche Ciro Oliva, mai si sarebbero creati modelli di pizzeria in cui il gourmet si siede insieme al popolo per mangiare la pizza napoletana. Perché su questo Alessandro ha ragione: la pizza è un prodotto popolare. L’immobilismo nello stile può premiare, e a me personalmente mi trova entusiasta perché io quando vado in pizzeria provo sempre marinara e margherita per misurare l’abilità del pizzaiolo e la qualità dei prodotti, ma nella comunicazione è peccato grave, non veniale. Dire “di che parliamo” è si ribadire il concetto che in fondo di pizza si parla, ma sul piano della comunicazione è un errore marchiano, ossia sminuire l’oggetto che tanto appassiona tutti. Parliamo di pizza, non risolveremo le sorti dell’umanità ma almeno ci consoliamo:-)
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