di Marco Lungo
Amici, qui dove ti volti per pizzerie, vedo che sempre di più ti sparano in faccia il termine “gourmet” ed uno si chiede perché. Come è che adesso escono fuori queste pizze “gourmet”. E prima? Come facevamo? Che si mangiavamo? C’erano le pizze “nientet”?
Di gourmet ne ho scritto fin troppo in altri lidi, in questo periodo. Il termine “gourmet” è abusato, prima di tutto. Nasce in Francia tanti decenni fa e definiva una clientela di alto livello e lignaggio i quali erano in grado di apprezzare i fini ed allora avanguardisti accoppiamenti che ciò che poi iniziavano a costituire ciò che la nouvelle cuisine iniziava a proporre.
Parliamo, quindi, dell’avere un palato raffinato e, soprattutto, di essere abituati a gustare accoppiamenti di ingredienti altamente costosi e pregiati. Il termine gourmet divenne anche desueto, parliamo degli anni ’80-’90, soprattutto in Italia, dove venne sostituito dal più consono “buongustaio”, che racchiude meglio l’idea di una persona in grado di apprezzare accostamenti non necessariamente costituiti con elementi di altissimo pregio ma che comunque fosse in grado di saper riconoscere il “mangiare bene”.
Da qualche tempo questa cosa del “gourmet”, decaduto come termine e non a caso perfino a famoso cibo per gatti, vista la sua reale desuetudine, riempie la bocca di vari pizzaioli che, sull’onda di nuovi megafoni come i social network, non perdono occasione per urlare ai quattro venti la loro ignoranza. Sono pochissimi, infatti, quelli che hanno fatto una certa ricerca sul discorso degli accoppiamenti con cui condire la pizza in termini di maggiore qualità, posso ricordare su tutti i grandi Renato Bosco, Simone Padoan e Renato Pancini, però se notate non hanno mai ecceduto nei termini usati, anche perché, alla fin fine, il supporto principale è uno spicchio di pizza, non è quindi che stiamo parlando di un qualcosa di un pregio spaventoso.
Non solo: siamo ancora nel mezzo di un lungo percorso di valorizzazione della pizza che la porti a non essere più vista come alimento povero o di massa ma che possa anche avere un valore aggiunto gustativo e nutritivo di ben altro livello. Per questo, oggi, vedere chi definisce una pizza gourmet solo perché la porta a spicchi con sopra ingredienti spesso slegati o incoerenti, valorizzati dall’essere serviti su un pezzo di legno, lascia il tempo che trova.
Possono fare forse un po’ di clienti gonzi, qualcuno si spaccia per istruttore e pela qualche grullo, però non contribuisce affatto a valorizzare la pizza sul lungo termine. Questo perché, soprattutto, non si valorizza mai qualcosa rispolverando termini del passato e, in questo caso, trapassato remoto.
Vince chi innova, chi inventa cose nuove, non chi fa sei spicchi di solita pizza, ci mette due strisce di salsa, un affettato pregiato, una riduzione di un qualcosa e la serve dicendo che è “gourmet”. No. Parliamo di qualcosa di nuovo, lasciamo perdere il gourmet dove sta e dove ha poi fatto la fine, cibo per gatti appunto, e inventiamo.
Basta copiare, basta far vedere quanto si è ignoranti ai quattro venti del web, cerchiamo definizioni nuove ma, nel frattempo, credo sia meglio stare zitti, innovare, crescere, pensare, fare, e non dare nomi. Se del caso, ci pensassero gli altri a definire il prodotto ma non noi per scimmiottamento, ripeto, peraltro datato assai.
E poi, facciamolo bene. Ci sono delle proposte di “pizze gourmet” che se le vedi ti pare che gli sia caduta sopra la dispensa. Nessuna scelta dell’elemento da valorizzare, accompagnandolo con delle spalle acconce che lo sostengano e lo esaltino, no, accozzaglie di tutti i tipi, basta che siano anche esteticamente “che belle” e che, quindi, possono essere passate per “gourmet”. Non solo: l’arte della pizza sta nel cuocere tutto in forno, non nel fare delle focacce condite. L’arte del montaggio della pizza è importantissima e non la spiega più nessuno, tanto, ormai, la gente si sta abituando a mangiare così. Per me, questo non va. Credo debba esistere un giusto punto di equilibrio. Gourmet con tutto fuori dal forno, per me già non è pizza.
Personalmente, come giurato nella finale di una trasmissione televisiva sulla pizza abbastanza nota, alla fine ho premiato “Il semplice fatto bene”, in mezzo a proposte di accoppiamenti più o meno azzeccati. Sì. Una Margherita realizzata a mestiere, da un ragazzo giovane di Acerra. E mi regolo sempre così. Il pizzaiolo moderno, secondo me, deve comprendere che deve studiare molto ed apprendere parecchie tecniche di cucina, acquisire la saggezza dei cuochi, i loro usi, i loro trucchi, il loro modo di lavorare. Solo così potrà, a mio avviso, valorizzare sul serio la pizza come sono convinto che si debba fare e che si debba fare presto in Italia, perché non dimentichiamo che siamo in un Paese che all’Expo mette McDonald’s come sponsor e alla pizza gli fa fare l’impresa di un chilometro e mezzo di roba, con uno sforzo organizzativo sicuramente importante, però poi la fa cuocere con il cannello (manco un forno a tunnel) e che cosa rimane del prodotto “pizza” nell’immaginario collettivo, dopo una roba del genere? Ditelo voi. A fronte di esibizioni di questo tipo, ditelo voi.
Valorizzare, capire, saper fare, interagire con altre esperienze, pensare, non improvvisare. La pizza merita tutto questo ed ha bisogno di questo, perché ne ha tutte le potenzialità ed ha oggi tanti giovani seri che possono cambiare in questa generazione la storia del disco di pasta, e a Napoli si vede già da qualche tempo come in alcune parti d’Italia.
Cerchiamo di non perdere questo treno e di non scimmiottare con termini che fanno più sorridere che altro.
Temo che, da un momento all’altro, nasca un qualcosa tipo “Associazione della Vera Pizza Gourmet”.
Italioti come siamo, non ci sarebbe da stupirsi.
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