di Raffaele Mosca
Il nome può suonare nuovo anche a chi bazzica il Salento vitivinicolo, perché, in effetti, Cantina Fiorentino esiste con questo marchio da meno di dieci anni. Ma il progetto portato avanti da Pierantonio Fiorentino, imprenditore già attivo nel settore dell’energia rinnovabile, nasce dalle ceneri di un’azienda con una storia ben più lunga, fondata nel 1820 e protagonista del rinascimento enologico salentino a partire dai primi anni 90’. Luigi Vallone, titolare della storica cantina Valle dell’Asso, e il suo enologo Elio Minoia, furono, infatti, tra i primi a ricavare un vino ambizioso dal Negroamaro piantato nell’agro di Galatina, sfruttando in particolare il biotipo denominato Cannellino, che matura in anticipo e non perde acidità neanche quando viene lasciato ad appassire in pianta.
Il Piromafo di Valle dell’Asso è stato vino pioneristico in tutto e per tutto e, se non gode della stessa notorietà di etichette cult come Graticciaia, Patriglione e Le Braci, è per via degli alti e bassi produttivi e finanziari che hanno caratterizzato l’azienda fino all’acquisizione da parte di Fiorentino, che ha recuperato le cantine storiche e incorporato i vigneti nei suoi oltre 75 ettari di proprietà coltivati in regime biologico.
Oggi la produzione del “grand vin” prosegue nel segno della continuità: il Piromafo – il cui nome in greco significa colui che batte il fuoco – è ottenuto da vigneti allevati a spalliera su terreni argillosi con striature ferrose rossastre, condotti in aridocoltura. Alla vendemmia posticipata per concentrare zuccheri e polifenoli del Cannellino, fa seguito una fermentazione con lunga macerazione sulle bucce. L’affinamento avviene in botti grandi di rovere per circa 16-18 mesi.
La 2016, prima annata prodotta sotto l’egida di Fiorentino, è solo all’inizio di un lungo percorso. “ Il Negroamaro è meno immediato e più tannico del Primitivo – ci spiega – ha sempre bisogno di tempo”. Mirto, mallo di noce, marasca e gelso maturo plasmano un profilo ricco e avvenente, con la concentrazione di frutto derivante dalla vendemmia ritardata che viene prontamente smorzata da tannini ben estratti e ritorni di chinotto ed erbe officinali. Giovane, ma già compiuto, perderà un po’ di “baby fat” e guadagnerà molto in complessità con il riposo in bottiglia.
Segue una verticale di otto annate che ripercorre le varie fasi del vino e di Valle dell’Asso: probabilmente la 2010 e la 2011 sono figlie di un periodo un po’ complicato e, per quanto ancora godibili, si trovano già in una parabola evolutiva discendente. Sembrano paradossalmente più mature della 2007 e della 2008: entrambi puntualissime nell’ esibire l’ estro del Negroamaro evoluto, con tracce di carrube, cuoio, trito di erbe spontanee e pot-pourri che anticipano sorsi molto reattivi: il primo un po’ più caldo e voluminoso ; il secondo snello e salino, decisamente giovanile.
La 2005 è appena penalizzata da un tannino un po’ scorbutico che occulta il frutto e rafforza i ritorni terziari; la 2001 è autunnale al naso, ma si riprende in bocca, sferrando l’ attacco sapido e chiudendo su toni di oliva al forno e spezie scure. Ma le sorprese più grandi le dispensano i due vini più anziani della batteria: la ‘99 è un piccolo capolavoro che riafferma il potenziale d’invecchiamento del Negroamaro. Funghi porcini, conserva di pomodoro e anisetta lasciano spazio al frutto nero in confettura, che torna a dare spessore in bocca, sostenuto da tannini precisi e acidità ancora tonica, erbe e spezie a ravvivare la progressione tutto meno che stanca. La 2000 rimane un passetto indietro, ma è comunque degno di nota. Danza sul filo del cioccolato fondente e delle erbe officinali, con qualche accenno di tabacco da pipa e salsa di soia, per poi distendersi in un uno sviluppo vellutato, di souplesse quasi bordolese, ma con eco di garriga e guizzo sapido di fondo a sottolinearne l’identità mediterranea.
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