Mi ha colpito molto la scomparsa improvvisa di Andrea Pininfarina. Intendo per come è morto: a 51 anni, in una calda mattina di agosto, stava andando semplicemente al suo lavoro, in motorino. Così, come un qualsiasi impiegato di banca, mentre tanti suoi colleghi già stanno spaparanzati fra Capri e Costa Azzurra a riempire le stanche pagine estive dei rotocalchi e dei quotidiani. Una dipartita austera, essenziale, calvinista, in puro stile piemontese direi. Non solo lavorava, ma non aveva il macchinone e neanche l’autista.Penso a come sia diverso questo stile di vita da quello di tanti presunti imprenditori del Sud, piccoli padroncini che appena aprono la partita Iva subito comprano l’auto potente indebitandosi con la finanziaria o con la banca. L’auto da queste parti è ancora un simbolo, il primo segnale che si è arrivati, un prolungamento del pene. Lui disegnava le Ferrari ma usava il motorino per farlo.La verità è che da noi, al Sud e in Italia, il senso della vita è nella sua rappresentazione, nella sua teatralità e spettacolarizzazione: non conta cosa si fa, ma come viene percepito dagli altri e anche in questo Napoli è postmoderna con il suo presidente miliardario che viene a spazzare le strade e fa andare tutti in sollucchero, come Mussolini per incantare i padani mieteva il grano a torso nudo. Lì era richiamo al lavoro duro, qui è di scena il paradosso, l’impossibilità che quello che si vede per pochi minuti sia in qualche modo agganciabile alla realtà, capire quanto sia forte una immagine del genere per gli stranieri. Una delle cose che mi ha insegnato il mondo agricolo è proprio la rappresentazione intima del potere nel Sud, la sua vocazione orientale alla distanza, il suo essere indifferente ai risultati, le liturgie feudali in cui è incorniciato nei convegni in cui tutti i valori sono rovesciati, nelle riunioni dove non valgono le idee ma la fidelizzazione. Una epifania del comando messa in discussione solo negli anni’70, intendo a destra come a sinistra, quando i leader erano i primi ad attaccare i manifesti, e ritornata, come una spaventosa risacca, alla fine degli anni ’90, intendo a destra come a sinistra.Ecco alcuni appunti, da leggere tenendo conto che ogni cosa ha le sue eccezioni, ma per spiegare a tanti amici perché le cose vanno in un certo modo. O’ pesce fete p’ a capa: il pesce puzza sempre dalla testa. Un modo per capire un po’ anche il potere in Italia, o i meccanismi di strutture feudali come la Chiesa Cattolica.
La manualità. Il primo segno di comando al Sud, è la scomparsa della manualità. Spostare un giornale, aprire la porta, premere il tasto di un ascensore tocca sempre al subalterno, mai a chi comanda. Figurarsi guidare un motorino. I ceti dirigenti napoletani, che hanno come modello l’aristocrazia borbonica che si sputtanava le immense ricchezze del latifondo a corte e in città, sanno che per farsi obbedire non si devono piegare alla praticità, ma solo ordinare con la parola. Questo è uno dei motivi per cui le cose non si fanno, ma si dicono.
Il distacco. Mentre l’idea greca, occidentale, del potere è la stretta prossimità fra chi ha delle responsabilità e la massa, l’agorà, a Napoli e nel Sud è importante segnare la distanza, l’accesso è consentito attraverso una lunga serie di filtri in cui il potere di colloquio diventa rendita per chi lo detiene ai vari livelli, dal portiere del palazzo sino al segretario particolare. Impensabile per un sindaco di Napoli essere ammazzato mentre passeggia a via Toledo come accadde ad Olaf Palme a Stoccolma. Per uno strano paradosso, la semplificazione dei riti del potere al Nord hanno avuto uno sdoppiamento per cui la liturgia è delle monarchie sopravvissute come espressione museale mentre la gestione è quella semplice e immediata dei premier e dei Parlamenti la cui idea è quella di essere sempre facilmente accessibili ai cittadini. A Napoli, e in Italia, queste due espressioni del potere, il simbolo e la funzione, sono ancora unificate.
La distanza. Dunque chi è in Reggia deve entrare subito nel mito, mostrare quasi una ascendenza divina, extracorporale, come un sovrano orientale. Una immagine. Mischiarsi fra la folla è apprezzato nella misura in cui dura pochi minuti, non è prassi consolidata.
I simboli. Una delle prime cose che fa l’ultimo assessorucolo di un comune importante o di una provincia è dotarsi di autista e auto blu, magari con il lampeggiante. Nelle manifestazioni queste macchine hanno accesso sin sotto il palco perché al Sud quanto più è possibile arrivare vicino il posto di una riunione con l’auto tanto più si comanda. Il must è avere accesso e parcheggio nelle isole pedonali.
Il ritardo. Un segno importante di comando a Napoli e nel Sud è il ritardo: il capo arriva sempre quando tutti lo hanno aspettato e quanto più tempo sono stati in attesa tanto più è gratificante poterlo vedere di persona, salutarlo, rubargli un cenno, avere una pacca sulla spalla. Le cerimonie di inaugurazione delle strade e degli edifici pubblici sotto il sole cocente con i vassalli che squagliano per il caldo sono un classico. Questa atteggiamento non deve trasmettere l’idea che il capo sia occupato e perciò fa ritardo, ma quella del satrapo che si muove solo quando tutto è pronto e mai prima. Siete voi ad aver bisogno di lui e non viceversa. Prima toccavano a lui le conclusioni, adesso c’è una novità: arriva, parla e se ne va. A prescindere da quello che si dice. Quattro cazzate, e via. Come i cani fanno pipì per segnare il territorio.
I capricci. Proprio come le popstar, chi ha il potere deve distinguersi per la capacità di esprimere capricci irrazionali e possibilmente controproducenti. Come cambiare orari, far rifare i manifesti all’ultimo minuto, cambiare improvvisamente programma, imporre nomi nei convegni o nella gestione di qualcosa. Quanto più segretari e uomini di servizio riescono a soddisfare questi capricci tanto più, proprio come i cortigiani nelle corti orientali, hanno importanza. La catena di comando non serve a trasmettere le istanze della realtà verso l’alto, ma a piegare il mondo reale ai voleri della volontà superiore.
I fondi pubblici. Non sono i soldi ottenuti con le tasse, ma il bottino da distribuire ed elargire, possibilmente senza razionalità. Tanto più si caricano amanti e fedeli sul budget pubblico, quanto più si sciala in buffet e viaggi, quanto più si spende per l’arredo e le auto, tanto più si mostra di essere saldi al comando. Ossia, di non dover subire controlli. Ecco perché il potere a Napoli è esibito, sfacciato, sempre esagerato nelle sue manifestazioni, ha come modello il Sultano dell’Oman e non il premierato finlandese. L’austerità non è un valore, come ci spiegano bene le splendide chiese barocche, ma una necessità-virtù di chi è povero e sfigato. I capi della mafia sono asceti, quelli della camorra chiassosi esibizionisti. Come i boss politici.
I risultati. L’obiettivo infatti della gestione del potere è il consumo delle risorse, non la loro moltiplicazione. I problemi vanno affrontati non nell’ottica della pianificazione sociale e urbanistica, ma solo quando diventano talmente evidenti nel disagio quotidiano da imporre un intervento prima che il potere finisca sul banco degli imputati. Questo spiega perché Napoli è città di rivolta e blocchi stradali quotidiani come nell’Ottocento, e perché si è dovuti arrivare sino alle estreme conseguenze prima di affrontare l’emergenza della munnezza. E spiega anche come questa città sia impagabile nel reagire di fronte agli eventi straordinari, la guerra, il terremoto, il colera, e come invece sia disarmante nella gestione del quotidiano dove i vigili urbani non riescono ad allontanare i parcheggiatori abusivi nemmeno dall’arteria principale in cui sono in corso magari lavori sul manto stradale. In ultima analisi il potere è nel ribadire in continuazione chi comanda.
Del che: nessun imprenditore napoletano è mai morto, e mai morirà, andando in motorino al lavoro. Più facile che il trauma cranico sia provocato da un tuffo sbagliato dal suo panfilo ormeggiato a Marina Piccola.
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