Ci sono fasi dell’anno o cicli della vita in cui vuoi tornare alla coperta di Linus, ai giochi che hai fatto, informarti magari che fine hanno fatto i tuoi compagni di scuola e i tuoi primi amori. Sono i momenti in cui percepisci che la spinta creativa si sta esaurendo e che molti scelgono sempre le soluzioni più facili, più brevi, più semplici, per complicarsi l’esistenza.
Ci sono poi cose che sembrano semplici ma che tali non sono, perché l’hai messa insieme una sfoglia di grano duro riccia (a proposito, sempre più difficili da trovare) rosultato di una industria unica al mondo, un buon pomodoro, un salume di maialino nero a punta di coltello di Cillo piuttosto che un pecorino di Carmasciando e magari la ricotta di Barlotti e la provola di Mail. Dietro ciascuna di queste cose semplici ci sono secoli di esperienze, di tentativi, di successi e insuccessi. Quando poi ti trovi una lasagna perfettamente eseguita da mia sorella hai solo voglia di un vino operaio che sgrassa la bocca con gioia. Perchè la lasagna napoletana è un pernacchio alla fame e alla vita triste e ha bisogno di un vino altrettanto allegro, esuberante, che non ti faccia pensare alro che alla lasagna e che te l’aiuta a mangiare con piacere.
Va così la prima domenica di febbraio. Un piatto semplicemente complesso e un vino altrettanto semplice quanto impegnativo: non si raggiunge questa semplicità stilistica se non quando questo lavoro lo ha iniziato il tuo bisnonno e per quattro generazioni, c’era forse ancora il Regno delle Due Sicilie, sei alle prese con le uve della Campania.
Il Piedirosso d’amare, così. Stappi, esce un po’ di spuma. Fa nulla: solo per educazione non allunghi la bocca verso il collo della bottiglia e lo versi nel bicchiere per goderti la spuma violacea e il colore rubino.
Un vino semplice su una ricetta semplice.
Il piacere di una semplicità raggiunta in un paio di secoli di storia e a cui non saprei rinunciare per nulla al mondo.
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