Sarà stato sei o sette anni fa , ora non ricordo con precisione.
Ricordo invece precisamente i toni della piacevolissima telefonata intercorsa con Fabio Luglio, l’uomo delle Triple AAA della Velier di Genova, chiacchierando su prodotti che mi interessavano per allestire una carta vini per un ristorante. Si parlò inevitabilmente di Francia, che Fabio conosce metro quadro per metro quadro sia per quanto riguarda il mondo vinicolo che quello dell’alta gastronomia, fino al momento di imbarazzo totale in qui venni a trovarmi quando con la massima disinvoltura mi disse di avere a disposizione i vini di un nuovo produttore in Cote d’Or che lo avevano colpito come quasi mai gli era accaduto in passato.
La presi un po’ con le molle questa informazione, e anche con qualche diffidenza a dire il vero.
Il caso volle, però io non credo al caso ma piuttosto alla volontà di far accadere le cose, che a poche settimane di distanza da quella telefonata mi ritrovai con un amico a Nizza nel covo biodinamico che fa di nome La Part des Anges a decidere con quale bottiglia iniziare ad ammazzare la serata.
Quell’etichetta così strana in confronto a tutte le altre così classiche attirò l’attenzione immediatamente e il ricordo dell’informazione avuta tempo prima chiuse il cerchio.
E così stappammo insieme a Fabrizio la prima bottiglia di Philippe Pacalet, poi la seconda, poi la terza.
Rimanemmo felicemente sorpresi dalle caratteristiche dei suoi vini e quindi la questione non si chiuse certo quella sera. Perchè siccome nulla è andato nuovamente per caso, ecco che a breve distanza di mesi fu organizzata nel medesimo bar a vin una serata con Philippe Pacalet.
Seduto a fianco del produttore contai 68 stappi per 22 persone (donne e bambini inclusi) e mi persuasi che oltre a quello che diamo per scontato sia fondamentale avere tra le caratteristiche di un buon vino, anche la facile bevibilità e la digeribilità siano ugualmente importanti prima di proporre una bottiglia ad un pubblico semplice o evoluto.
Avendo deciso a cavallo del millennio di iniziare una produzione propria dopo fruttuosi anni passati a vinificare per il prestigioso Domaine Prieurè Roch (fondato nel 1988 dal nipote di Lalou Leroy), Philippe ha intrapreso una attività da negociant anomalo, privilegiando le parcelle dei diversi cru, meglio se “vecchie vigne” , seguite e coltivate durante l’anno secondo le sue indicazioni, le sue regole, i suoi protocolli.
In sostanza, arrivando all’acquisto di frutto sulla pianta appartenente a diversi proprietari che avessero garantito una qualità di frutto coerente alla sua filosofia, che tutto sommato molto integralista non è, non volendo neppure etichettarsi come biodinamico, ma accontentandosi a volte del termine biologico.
Prioritaria invece la volontà di difendere le diversità di ogni singolo terroir, preservando possibilmente i lieviti indigeni e quindi in fase di fermentazione evitando l’ utilizzazione di anidride solforosa che è per definizione antifermentativa e che quindi impedirebbe l’espressione ottimale delle caratteristiche del “terroir stesso. Poi un pochino, all’imbottigliamento (fatto a mano per ogni singola bottiglia) ce la mette per cautelarsi. Zucchero invece no. Lo zucchero è una spesa aggiuntiva che ha deciso di non sostenere.
Mano leggera anche sul versante affinamento, dove le pièces utilizzate sono per il 95% vecchie di cinque o più passaggi e quindi praticamente mai sentirete un vino di Pacalet che sa di legno, pur giovanissimo che sia.
L’espressione del vino non potrà dunque che essere vera , cristallina come l’espressione delle persone che non hanno nulla da nascondere.
Se volete sapere com’è stata l’annata in Borgogna stappate un rosso di Pacalet, un vino che non mente e non nasconde nulla.
Si, ma con tutte le denominazioni che copre e che continua a cambiare ogni anno quale scegliere?
In effetti questo è un dubbio che ha pochi motivi di esistere , potendo confidare sulla serietà e la coerenza per tutto il passato decennio.
Personalmente, a livello di cru village, che offrono la soddisfazione di una bella bevuta senza saccheggiare il portafogli, direi che su Gevrey Chambertin e su Chambolle Musigny non si sbaglia. Certo, volendo salire di grado e di blasone ci si può immolare contro un grand cru come Ruchottes Chambertin o sul nuovo arrivato (dal millesimo 2009) Chambertin Clos de Béze che però daranno delle belle soddisfazioni.
I miei millesimi preferiti da Philippe sono poi i millesimi buoni, perché quello che è stato te lo ritrovi nel bicchiere, e quindi 2001, 2002, 2005, 2006, 2009 .
Questo per i rossi. Sui bianchi sono meno entusiasta, perché a parte lo stratosferico Corton Charlemagne (2002 da paura, 2004 notevole e 2009 promettentissimo in arrivo la prossima primavera) il resto dei tentativi non mi sembrano degni del nome che Philippe si è costruito sul Pinot.
Meursault, St.Aubin, Puligny… mah! Perfino a Chablis è salito , ma con esiti alterni. Ma ne riparleremo più avanti, quando le 24 appellations e alcune delle 45.000 bottiglie previste per il nobile millesimo 2009 saranno disponibili anche in Italia. Per ora rimane l’ottima impressione destata dalla recente degustazione in cantina, a la pipette, dove ancora una volta la verità dell’annata è stata facilmente decifrata nel bicchiere.
Alla fine della storia si ritorna all’inizio della storia: ci si ritrova tra due amici e si decide di “esagerare senza esagerare” ? Bene, e allora saranno un paio di bottiglie di buona annata di Pinot di Philippe, da qualunque cru provengano, a sistemare l’umore ed alleggerire lo spirito per l’intera giornata e a garantire un buon sonno senza brutti sogni.
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