Tema: perchè Langosteria ha schiacciato la Michelin?

Pubblicato in: Polemiche e punti di vista
Giulia Gavagnin

Giulia Gavagnin

La caduta delle stelle
Indagine semiseria e un po’ crudele sulla crisi del fine dining

di Giulia Gavagnin

Con la complicità delle ferie estive che spingono a elaborare articoli più di meditazione che di azione, da qualche tempo si susseguono pensieri e commenti da parte di giornalisti ed esperti sulla crisi della cucina d’autore, che ormai per comodità indichiamo con il termine anglofono (piuttosto antipatico) “fine dining”.

Per farla breve, nel vademecum dei non iniziati, la gente va meno nei ristoranti “stellati”: preferisce la genuinità, la semplicità, la nonna, si addossa il rischio di finire a litigare la domenica con la suocera davanti a una parmigiana di melanzane eseguita con la ricetta della trisavola Assuntina che guai a chi la tocca. Anche se il rischio è quello di finire a pigliarsi a legnate tra parenti col mattarello di casa.

Le cose stanno proprio così?

Molti pensieri di buonsenso sono stati formulati qualche settimana fa da Luciano Pignataro che ha ricordato la verve intellettuale di Stefano Bonilli nel decimo anniversario della sua scomparsa. In particolare, la sua curiosità, qualità che mancherebbe all’Italia in questo momento.

E aggiunge: “non è morta la cucina d’autore, è in crisi la stupidità d’autore”. Game, set, match.

Nella giornata di ieri il medesimo Pignataro ha spiegato, numeri alla mano, che in Germania la crisi dei ristoranti stellati è statistica.

Quindi, come diceva Ennio Flaiano, la situazione è grave ma non è seria.

Tuttavia, ci sono alcuni aspetti “scomodi” che l’illustre giornalista de Il Mattino non ha esplorato, forse per una naturale inclinazione alla benevolenza.

Qualcuno, però, dovrà pur dirli.

Eccomi!

Siamo d’accordo, lo diciamo da tempo. Ormai nei ristoranti di un certo tipo ci si annoia. Schiume e schiumette (che ormai sono tramontate un po’ ovunque, salvo in alcune preparazioni ormai considerate “classiche”, alla francese più che alla spagnola), camerieri che sussurrano una lunga lista di ingredienti come fossero in un confessionale, piatti uguali da Vienna a Melbourne come già ha detto una decina d’anni fa il sommo Fulvio Pierangelini nel celebre discorso al Mad di Copenaghen, chef che assemblano pezzi e pezzettini con le pinzette sembrando più estetiste che cuochi. Senza contare il famoso ego dello chef che lo rende antipaticuccio, anche perché forse non se lo può più tanto permettere, a meno che non sia un Venerato Maestro (altrimenti, come diceva Alberto Arbasino, siamo al cospetto di un Solito Stronzo). Tutto questo ha allontanato il cliente da un certo tipo di “esperienza”, che evidentemente non è più considerata tale, soprattutto a fronte di un certo costo. Ma questo è l’effetto, non la causa. Che va ricercata, come sempre, più lontano. Ad esempio.

Il discorso in realtà è un po’ più complesso. I movimenti nascono e prosperano in periodi di rivoluzione, quelli in cui la Giovane Promessa può diventare un Venerato Maestro ovvero restare un Solito Stronzo. In Italia la rivoluzione è stata compiuta invero due volte. Con Gualtiero Marchesi, che ha portato il modello di Haute Cuisine francese in Italia, conferendogli autonoma dignità. Con Ferran Adrià, che ha fatto la rivoluzione in Spagna, influenzando tuttavia un’intera generazione di chef nostrani che son poi diventati grandissimi. Senza Adrià, Bottura, Cedroni, Uliassi non sarebbero stati gli stessi e non avrebbero raggiunto la grandezza effettivamente acquisita. Poi c’è stata la rivoluzione scandinava, ma non è stata la stessa cosa. L’ha detto anche Ferran: “quella spagnola è stata una rivoluzione, quella scandinava un movimento limitato”. E’ verissimo. L’influenza del Noma è relativa, e troppo distante dalle nostre radici. Ha suscitato interesse, ma non amore vero. E in Italia di rivoluzionario non s’intravede alcunché, in un panorama di chef che fortissimamente vorrebbero essere artisti, ma restano solo artigiani. In una moltiplicazione incontrollata di ristoranti. L’ha detto anche Carlo Cracco a una conferenza presso la Fondazione Gualtiero Marchesi lo scorso maggio: “ci sono troppi ristoranti”. E così, senza una reale spinta creativa, in un panorama di sovraffollamento numerico non può che esserci l’appiattimento. L’”esperienza” diventa uno standard, quindi il suo contrario. Si continua a stare bene, benissimo dai Venerati Maestri, di età senatoriale (+55). I più giovani, perlopiù, piacciono ma non incantano. Matteo Grandi, trentaquattrenne stellato a Vicenza ha detto: “quelli della mia età hanno fatto tanto ma non hanno inventato nulla”. Come dargli torto? Non è colpa loro. Semplicemente la Storia Capricciosa ha voluto che non fosse il loro momento.

Sembra impossibile, ma anche nel mondo dell’Haute Cuisine vige il principio dei vasi comunicanti. Gli chef devono saper fare e inventare, ma hanno anche bisogno di critici, giornalisti, esperti, comunicatori competenti con cui confrontarsi. La cucina è squadra anche fuori dalla cucina. Luciano Pignataro ha ricordato la “curiosità” di Stefano Bonilli, con cui gli chef si confrontavano attivamente, non senza scintille. Bonilli rappresentava una generazione di giornalisti/critici di solidissima preparazione culturale-umanistica la cui visione universalistica sapeva applicare a ogni campo del sapere, cucina compresa. Anche i gourmet non giornalisti sapevano determinare la cultura del gusto attraverso il dialogo con gli chef. L’ultimo di questi, probabilmente, è stato Bob Noto. Dopo di lui, il diluvio.

Oggi, anche grazie ai social, la piattaforma si è allargata, e per la legge dei grandi numeri, come in riferimento al ragionamento di cui al punto precedente, non in meglio.

Si sono affacciati numerosi appassionati che grazie alla massiccia presenza annuale in un determinato numero di ristoranti si sono arrogati il diritto di “influenzare” il gusto attraverso la comunicazione, su carta stampata e non, spesso con articoli e comunicati tutti uguali che non lasciano il segno.

A un certo punto gli “influencer” sono sembrati essere la nuova frontiera, ma complice l’effetto Pandoro-Ferragni , deo gratias, paiono aver subito una battuta d’arresto ed essere tornati nel loro alveo d’afferenza originaria (paninerie, all you can eat, pizza a metro) con soluzioni più alla portata monetaria di pubblico. Tra gli “influencer”, se è lecito considerarli con questo termine, al momento mi viene in mente di salvare solo due ragazzi piemontesi che hanno un canale You Tube che si chiama “Cosa mangiamo oggi?”. Fanno video piacevoli e ben congegnati, mostrando passione e competenza, qualità che appartengono a una stretta minoranza,

Quanto al resto, la categoria ibrido-intermedia sviolina complimenti allo chef di turno a suon di post tutti uguali, senza una precisa spinta creativa, al pari dei loro piatti. Spesso costoro sono invitati, e –vecchia storia- a caval donato non si guarda in bocca. Va tutto bene, madama la marchesa, ma non se uno chef/ristoratore vorrebbe “anche” crescere.

Non stanno meglio molti giornalisti di mestiere. Anche loro invitati, si vantano  di frequentare luoghi inaccessibili ai “comuni mortali” (espressione orrenda e frequentissima utilizzata nei social), risultano oggettivamente antipatici perché esibire il privilegio è sempre cosa sgradevole, e poi, per obiettiva qualità del luogo o impossibilità di sollevare una critica per piaggeria, è tutto un susseguirsi di frasi e luoghi comuni. “La mano felice di Tizio”, “la cifra stilistica di Caio” (cifra stilistica???), “la squisita sensibilità di Mevio”. Ai loro contributi manca la verve, nella medesima misura in cui manca ad alcuni chef. E’ il serpente che si morde la coda. Dov’è la testa, e dove la coda?

Il processo era iniziato ben prima del Covid-19, ma il periodo pandemico ne ha accelerato gli effetti. La ristorazione borghese, diretta all’omonima categoria sociale, ha avuto determinate caratteristiche, connotate dalla ricercatezza dei piatti, dalla ricerca nell’innovazione, dal prestigio della materia prima e da un servizio di sala accurato. Per dire, un piatto cardine della storia della cucina italiana è il riso oro e zafferano di Gualtiero Marchesi, che è un piatto tradizionale portato alla massima perfezione nell’esecuzione, nella concettualità e nell’estetica. Poi, come detto sopra, è giunta la rivoluzione spagnola, che ha fortemente influenzato anche la nostra cucina, imponendo a tanti, troppi ristoranti non in grado di sostenerlo intellettualmente, un lungo menu degustazione come scelta preferenziale, punteggiato di piatti spesso privi di consistenza, in cui salse, schiume e arie la fanno da padrone, pur non essendo parte della nostra tradizione.

Così, il menu degustazione è diventato un format che insieme ad altri elementi (la sterminata serie di amuse bouche, il cameriere che sussurra, il “nostro pane”, il “mio orto”, a volte mancano solo le mie prigioni) costituisce la conditio sine qua non per cui il ristorante concorre all’assegnazione della stella.

Alla Michelin interessa poco che lo chef e la sala offrano un servizio complessivo vibrante, che la materia prima sprigioni la sua essenza, che nell’esperienza complessiva si respiri l’autenticità del cibo. Richiede, piuttosto, che vengano rispettate delle cadenze scritte fatte di esecuzioni di mestiere e copioni predeterminati che sono oggi derivativi delle esperienze spagnola e scandinava.

Ma il pubblico, quando si tratta di cacciare la grana, è molto attento soprattutto alla mancanza di autenticità.

Non tutti sono in grado di capirlo pienamente, ma ciò che manca in molti di questi ristoranti è l’autenticità. Gli chef ricercano un certo tipo di effetto cucinando “nello stile della Michelin”, ma senza essere in grado di offrire un’esperienza davvero memorabile.

Sono pochissimi gli chef che sanno confezionare un menu  degustazione che tenga incollati alla sedia dal primo all’ultimo piatto e sono perlopiù fuoriclasse. E’ inutile fare i nomi, tanto sono quelli di cui parliamo spesso.

All’infuori di questa ristretta cerchia, il pubblico spendente (la borghesia nella sua accezione più moderna, sempre che una borghesia esista ancora) si rivolge a un altro tipo di prodotto.

Uno chef stellato poco tempo fa mi disse che se dovesse aprire un ristorante nuovo, si orienterebbe verso un locale di pesce crudo e bollicine pregiate.

I ristoranti che oggi vanno per la maggiore presso il pubblico spendente sono quelli di materia prima.

Molluschi, crostacei crudi, spigole al sale; ma anche pregiate steak-house di bistecche di varia provenienza affinate per diverse settimane.

Se ci pensate, sono la negazione stessa della cucina: necessitano di cuochi, non di chef, come dice Arrigo Cipriani.

E’ emblematico il caso Langosteria, che da un quartiere emergente di Milano si è insediato nelle località più prestigiose d’Italia e del mondo: Portofino, St. Moritz, Parigi, a breve Londra. Il suo patron, Enrico Buonocore, non è un cuoco, ma uomo di idee: da un cocktail bar in via Savona ha creato quello che per anni è stato (parole sue) il ristorante “più figo di Milano”. Langosteria è stato il locale in cui tutti volevano andare, con liste d’attesa spaventose. Gli ingredienti? Plateau royale di tutti i generi, paccheri al branzino, king crab, carpacci e ceviche peruviani.

Piatti semplici e realizzati a regola d’arte in una cornice glamour. Facile a dirsi, difficile a realizzarsi. I cloni si sono moltiplicati, ma il twist di Langosteria è unico. Tra bauscia, sboroni, russi e modelle, rappresenta il concetto di lusso contemporaneo, con una vitalità che al ristorante stellato manca. Infatti, Buonocore, ha sempre dichiarato che della stella non gli importa assolutamente niente.

Luciano Pignataro nella sua analisi era stato generoso. Il menu degustazione favorisce il sovrappeso, di cui oggi soffrono la maggior parte degli italiani. Nessuno vuole più stare ore a tavola a mangiare. Verissimo. Ma per una questione più sottile e crudele. Più che la salute conta l’immagine.

Nessuno vuole più essere grasso.

La deriva inizia negli USA, patria degli oversize.

I poveri mangiano a scopo consolatorio, riempiono il carrello del supermercato di cibi industriali ultraprocessati e la sera si piazzano davanti alla Tv con il litro di coca cola e il sacchetto di patatine. Col risultato di lievitare in pochi anni.

I ricchi invece praticano sport di ogni genere, mangiano sushi, avocado toast, bevono estratti di frutta e verdura e si mantengono snelli.

Così, anche in Europa, non esistono praticamente più veri benestanti sotto i 45 anni che siano sovrappeso.

Sono tutti snelli e prestanti con l’abbonamento ad almeno due circoli sportivi. Il consumo di alcol è in caduta libera tra i giovani semplicemente perché più nessuno vuole essere grasso e passare per essere un povero che mangia e beve a scopo consolatorio. Magari le trasgressioni sono altre e sono sintetiche, ma non fanno ingrassare.

Il mangione oggi passa per un debole, uno che non si sa controllare, che non ha altro dalla vita, ma soprattutto uno che passa automaticamente dalla parte dei non-benestanti.

In questo panorama culturale (per modo di dire, ovviamente) il ristorante di “materia prima” è l’ideale per mantenersi in forma.

Uno, al massimo due piatti a contenuto proteico, una bottiglia di champagne in due, digiuno il giorno dopo, e anche l’accompagnatrice modella-escort-bellona o semplicemente “moderna” è accontentata e non mette a rischio l’immagine.

Luoghi come Langosteria rappresentano l’opzione ideale per chi vuole sentirsi e mostrarsi benestante.

Il ristorante di “fine dining”, come diceva qualche tempo fa Emanuele Scarello, bistellato a Udine, resta una cosa per pochi.

Noi siamo d’accordo, ma sono proprio pochi i bravi come lui. E per fortuna. Frequenteremo meno stellati ma tutti quelli validi, per la gioia delle nostre tasche e del giro vita.

 


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