Perché i nipotini di Savonarola al governo vogliono distruggere la ristorazione italiana?

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Girolamo Savonarola

Girolamo Savonarola

La ristorazione d’autunno diventa l’autunno della ristorazione. Già, perchè il Covid ha evidenziato un’amara realtà per tutti i protagonisti dell’agroalimentare italiano: viene considerato un settore secondario, il primo in assoluto da sacrificare. Ma non solo, vedendo i commenti di illustri politici e gli hater sui social, è anche considerato il settore degli evasori, di quelli che assumono solo persone in nero, che imbrogliano i clienti.
Non è entrato nella coscienza del ceto politico, noto tra l’altro per mangiare malissimo, che la gastronomia non è uno sfizio per ricchi, ma un potente motore culturale su cui gli altri stati europei hanno investito senza lesinare, un settore capace di creare posti di lavoro, fermare l’emigrazione giovanile all’estero e addirittura di trattenerla al Sud.
Niente, non gli entra nella testa perché è un settore che non controllano, che cresce nonostante la politica e nonostante la burocrazia.
Perché è un Parlamento di nominati completamente avulso dalla vita reale e quelli che lo volevano aprire come una scatoletta di tonno si sono ritrovati perfettamente nel ruolo di tonni nonostante siano stati votati proprio da coloro che oggi sono senza rappresentanza, partite Iva e i giovani sotto i 35 anni.
Eppure parliamo di almeno 1,3 milioni di italiani impegnati nel settore in oltre 300mila aziende che prima del lockdown segnava un tasso di crescita annuo del 3 per cento, cioè tre volte la media del pil nazionale. Un settore che produce oltre 80 miliardi di export, l’unico che assorbe posti di lavoro al Sud come al Nord. Già, perché proprio nel settore dell’agroalimentare non c’è differenza fra le diverse parti del paese, anzi, alcune regioni hanno tassi di crescita superiori alla media nazionale come registrato dall’ultimo rapporto dell’Ismea.

Ma non sono le cifre che devono spiegare l’importanza della ristorazione e del comparto gastronomico al Sud e in Italia. L’aspetto principale infatti è costituito dal patrimonio culturale e colturale che ne fanno un paese unico al mondo, secondo motivo di viaggio dopo le attrazioni naturali e paesaggistiche, un Paese che fa della sua diversità la sua forza perché ciascuna regione esprime, attraverso i suoi piatti e i suoi prodotti, anche la propria storia, una storia che oggi si riproduce proprio nei ristoranti, nelle trattorie e nelle pizzerie. Immaginate cosa sarebbe il nostro paese se al posto delle pizzerie artigianali e delle trattorie vi fossero solo le catene delle multinazionali del cibo che producono ovunque le stesse cose.

Bene, sarebbe un Paese senza identità.
Non solo, la gastronomia in questo momento al Sud è l’unico ascensore sociale che funziona dopo il fallimento e le difficoltà degli altri modelli, tanto che se prima i figli dei contadini studiavano da medici, avvocati, ingegneri e architetti per fare il salto, oggi i figli di medici, avvocati, ingegneri e architetti ritornano nelle terre dei nonni.

La gastronomia di qualità vede l’Italia primo paese al mondo per prodotti registrati e protetti dai marchi europei, e la Campania prima in Italia con delle unicità pazzesche come la pasta di Gragnano, i pomodori (san Marzano e piennolo), la mozzarella di bufala. Praticamente i simboli dell’Italia a tavola nascono all’ombra del Vesuvio.
Infine, la gastronomia ha trascinato l’agricoltura di qualità, quelle delle piccole aziende che possono finalmente vedere degli sbocchi remunerativi alla loro attività uscendo dalla logica del ribasso dei prezzi che le vede perdenti nel mercato mondiale.

In una parola, il made in Italy nel mondo significa food e moda. Ma noi di questo patrimonio quasi non ci interessiamo, lo consideriamo normale, banale, come il Colosseo o Pompei, non lo difendiamo nelle sedi opportune e il mondo politico non lo tutela, perché non lo controlla e ha subito senza capire la crescita degli ultimi dieci anni. Giudichiamo normale che il settore pubblico aiuti l’industria dell’auto, tanto per fare un esempio, ma protestiamo se si aiutano le piccole imprese della ristorazione accusandole di evasione. Giudichiamo normale pagaere la cassa integrazione delle aziende in crisi ma non sollevare dalle tasse la piccola azienda familiare che non può più pagare perché costretta a stare chiusa.

Una strana guerra di classe che altro non è che un confronto fra chi ha cultura vera e difende l’italianità e chi vive nei reality o nei talk show serali per poi mangiarsi un panino in un fast food di una multinazionale.


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