Detesto i termini pizza-chef e pizza-gourmet. Sono infatti una chiara dimostrazione di subalternità culturale da colonizzati che non ha alcuna ragione di essere, visti anche i numeri e i volumi economici che in questi ultimi anni sta sviluppando il mondo della pizzeria. Dietro la semantica delle parole ci sono profondi significati che hanno origine nella battaglia che si è combattuta negli ultimi dieci anni in cui una parte del mondo della comunicazione del Nord non ha voluto accettare l’ingresso e il protagonismo dei pizzaioli sulla scena gastronomica italiana e internazionale.
In sostanza usare il termine gourmet per la pizza significa utilizzare un vero e proprio ossimoro: come se la pizza napoletana in quanto tale non possa essere considerata dai piani alti della gastronomia. Idem il termine Pizza chef, quasi che il pizzaiolo per accreditarsi debba autodefinirsi anche cuoco. In realtà ogni pizza buona è di per se una pizza gourmet e ogni pizzaiolo non è altro che un pizzaiolo con pari dignità lavorativa di quella di un cuoco: si tratta di mestieri simili perché hanno a che fare con la manipolazione delle materie prime, ma assolutamente diversi nella sostanza perché il pizzaiolo parte sempre e comunque dal disco di pasta e le pizzerie sono sostanzialmente locali monoprodotto.
L’attacco al termine pizza è stato portato da più parti, per esempio estendendolo anche alle focacce, che sono qualcosa di profondamente diverso sino a comprendere qualsiasi lievitato che a questo punto non sia una torta dolce o un panettone. Dilatandolo,hannocercato di scippare l’identità del prodotto.
Alcuni pizzaioli a questo punto hanno pensato che per essere accreditati non bastava il proprio lavoro, ma bisogna sfilare sugli stessi palcoscenici degli chef e si sono sentiti lusingati, sino a parlare di se stessi dimenticando di far parte di una comunità ben definita. Siamo passati dalla «pizza napoletana» alla «mia pizza», segno dei tempi ma anche di un profondo narcisismo gastronomico, una vera ossessione al punto da rinnegare i valori profondi di questo lavoro per fare la parte degli indiani nel circo di Buffalo Bill.
Ogni tanto sentiamo qualcuno dire «un onore per me stare qui con grandi chef», come se lo stare insieme a questi cuochi sia di per se una sorta di scalata sociale, un concetto che implica un complesso di inferiorità verso gli chef e al tempo stesso di superiorità (che poi è la stessa cosa) verso i propri colleghi pizzaioli che non avrebbero lo stesso privilegio. Dovrebbe essere a questo punto un onore per uno chef stare insieme a grandi pizzaioli, ma quando si ha il cervello incancrenito dal proprio narcisismo la realtà inizia a liquefarsi: “O munn è comm un so fà ‘ncapa”.
La realtà invece è costituita da una comunità di pizzaioli, di nuove generazioni consapevoli e più preparate, di imprenditori del settore che, a differenza di gran parte degli stellati, riesce a far quadrare i conti puntando sulla qualità del prodotto e del servizio. La pizza, quella napoletana in particolare, non ha bisogno di essere accreditata, non a caso l’arte del pizzaiolo napoletano è riconosciuta come patrimonio immateriale dell’umanità. I pizzaioli non hanno bisogno degli chef per essere accreditati, anche quando si fanno fare le pizze dagli stellati senza dirlo e presentandole come proprie creazioni.
Non siamo nostalgici di un passato borbonico, ci mancherebbe altro, abbiamo visto la fine dei nostri vicini di casa dopo il crollo della Yugoslavia. Ma riteniamo che per parlare di cucina italiana è necessario il riequilibrio della narrazione gastronomica e dare il giusto peso al ruolo della tradizione napoletana e del Mezzogiorno alla Dieta Mediterranea. La pizza napoletana non è, come pure è stato teorizzato, una articolazione di quella italiana, semmai il contrario.
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