Piccola polemica estiva: l’ha lanciata Santa Di Salvo sul Mattino. Pellegrino Artusi è ritenuto il padre della cucina italiana moderna, ma con un particolare: l’Italia senza il Sud. Per lui Napoli era la porta dell’inferno di un Mezzogiorno indistinto e senza tradizione. Non si prese nemmeno la briga di leggere i primi ricettari dell’Ottocento scritti da Corrado e da Cavalcanti e di studiare i grandi ricettari dei Monzu.
A ben vedere nascono qui tanti pregiudizi sulla cucina del Sud, quello contro il pomodoro, la pasta e tanti altri. Pregiudizi con cui abbiamo convissuto sino agli anni ’80 quando poi la situazione si è rovesciata completamente con decine di studi scientifici che confermano la salubrità di una cucina e riconoscimenti internazionali che fanno di Napoli la provincia più stellata d’Italia.
La domanda, a ben vedere sarebbe: perchè Artusi è ritenuto gastronomo italiano e non tosco-amiliano mentre Corrado e Cavalcanti non sono ritenuti italiani ma napoletani?
Dietro queste sfumature per appassionati c’è la necessità di una riscrittura anche della gastronomia del nostro paese, oltre che della storia unitaria, fermo restando ovviamente la bellezza e l’irrinunciabilità di tutte le cucine regionali. Chissà cosa scriverebbe Artusi, che ha ancora qualche nipotino in giro che blatera contro la cucina mediterranea, di fronte al fatto che i pici sono restati una buonissima specialità toscana mentre gli spaghetti sono diventati italiani :-)
Vabbè, godetevi questo pezzo delizioso scritto con garbo e in punta di penna.
l.pigna.
di Santa Di Salvo
Il gran baffo di Romagna amava i tortellini e il lesso delle sue parti. Nulla da ridire. Ma lui non era un ghiottone qualunque, i suoi lunghi favoriti “en cotelette” affondavano in sughi e creme lungo per tutta la Penisola, isole non comprese. Perché Pellegrino, per onorare il suo nome, ebbe sempre tanta voglia di peregrinare, viaggiando tra le regioni e tra i vari fornelli del Belpaese. Da papà Agostino Artusi, droghiere benestante e come lui irrequieto (lo chiamavano buratèl, piccola anguilla) imparò l’arte del commercio e la passione per i classici. Gli affari gli andarono cosi bene che a cinquant’anni si ritirò a vita privata per scrivere e studiare da geniale autodidatta.
Nessuno avrebbe mai scommesso che quel libro di ricette stampato a sue spese nel 1891, in successive 14 edizioni, sarebbe diventato il simbolo dell’Italia unita. Invece con “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” Pellegrino Artusi diventa un benemerito padre dell’identità nazionale, l’uomo che fa per l’unificazione più di quanto non siano riusciti a fare i Promessi Sposi. Ma come tutti i padri va contestato, specialmente dai figliastri del Sud, che dall’unità savoiarda si videro totalmente cancellati dai primi posti a tavola. Diversamente da Garibaldi, Artusi è l’eroe di un mondo solo, quello del Centro-Nord. Della cucina meridionale Pellegrino poco sapeva e meno voleva capirne. L’Italia ricucita dalle sue ricette pecca di miopia verso il Mezzogiorno, visto da lontano come il solito calderone bollente di “maccaroni”, che peraltro suscitavano in lui un certo ribrezzo, perché conditi con troppo pepe e cacio piccante. E’ vero, a sud di Partenope i trasporti erano un disastro, la Napoli-Reggio era un cantiere infinito (allora!), però Collodi prova almeno a scrivere un Viaggio in Italia ad uso delle scuole copiando dai baedeker una quindicina di pagine sul Sud, Artusi si ferma a Napoli e torna indietro, questa è la porta dell’inferno…
Arriva in diligenza la prima volta nel 1847, vi torna con il vapore nel 1899. Che cosa scopre? La prima volta la pasta con la besciamella in un ristorante elegante. La seconda i maccheroni cibo di strada e due dolci: la pizza dolce e il dolce alla napoletana. Contro le spinte separatiste, la sua Scienza in cucina è un collante fatto con l’uovo sbattuto. Il primo codice di identificazione nazionale parte da Firenze, dove Artusi risiedeva, e risciacqua le ricette in Arno secondo il modello manzoniano. L’immagine sfocata del Meridione è quella consueta di una terra di nessuno pittoresca e pericolosa, alla cui tavola è meglio non avventurarsi. Tant’è che anche la Sicilia vive nel manuale solo grazie a due ricette fornitegli da una vedova sua lettrice, pasta con le sarde e nasello alla palermitana. Insomma, Pellegrino ne sa quasi più su altre cucine esotiche, a leggere almeno Marco Malvaldi, che al padre fondatore di mazziniane simpatie ha dedicato due divertenti gialli investigativi con piatto finale. Ne “Il borghese Pellegrino” uscito in questi giorni da Sellerio, l’indagine internazionale del Nostro si chiude con la deliziosa ricetta artusiana dei peperoni in agrodolce con noci e melagrana, detti anche Muhammara.
Se la Scienza deve essere un inventario esauriente, allora è tempo di suggerire, come la vedova sicula fece, una seria e serena appendice alla Bibbia gastronomica d’Italia. Non è difficile, in fondo. Basterebbe allegarvi, cosi com’è, il celebre trattato di Cucina teorico-pratica del cavalier Ippolito Cavalcanti duca di Buonvicino, pubblicato per la prima volta nel 1837. Un monumento alla gastronomia e a quella cucina napoletana alta e bassa che ha conquistato il mondo.
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