di Mario Amodio
Fede, religione e gastronomia. Un legame che in Costiera Amalfitana da secoli contamina antiche tradizioni, riti e usanze non ancora tramontate. Come quello della «Quaresima Buttunata», un fantoccio realizzato con stracci e stoffe logore ed al cui interno gli si collocano zucchette o patate. Una tradizione che ancora oggi sopravvive in alcuni centri della Costiera. Come Ravello, dove dinanzi a qualche grata continua a comparire questo strana «vecchina» di pezza. Ed è proprio su queste che s’appuntano ancora oggi penne d’oca e di gallina. Servono a scandire il tempo di Quaresima. Proprio come facevano gli avi amalfitani che di piuma in piuma, patendo il «supplizio» degli odori di noglie, pezzenti e insaccati, contavano le settimane che separavano i giorni di privazioni da quelli delle grandi abbuffate. E così, una per volta, le cinque piume che conducono alla Pasqua, vengono rimosse di domenica in domenica.
E sempre prima dell’ennesimo pranzo di magro in attesa della festa. Questo rito ricorda i tempi di digiuno e di preghiera. Tempi in cui la genialità gastronomica gravava interamente sulle povere massaie. Ma sempre nel rispetto delle regole e dei dogmi della Chiesa. Ridotte all’osso le attività di cucina nei giganteschi e prodigiosi locali dei conventi, tutti formati da enormi rastrelliere per le teglie e da cappe smisurate collocate a qualche metro dai fornelli, almeno fino alla Pasqua il mestolo d’oro veniva infatti affidato alle casalinghe. Soprattutto prima che le cinque settimane di digiuno, utili ad assolvere i peccati di gola, culminassero nella grande liberazione pasquale. A primeggiare sulle tavole imbandite era il «condimentum», ovvero strutto e carne di maiale presenti sia nella «minestra ammaritata» che nel «tortano ca ‘nzogne e pepe». Una tradizione tipicamente costiera che sopravvive tutt’ora al tempo e all’insidia di nuove mode. Ma partiamo dal cosidetto tortano, una produzione tipica della zona e totalmente diverso da quello napoletano. Tale alimento, di forma tonda e ricoperto di lardo salato ed erbe aromatiche come il rosmarino, si consumava caldo. Poi l’estro culinario della zona ha creato i tortani, impastati con sugna, cigoli, pepe che, con l’aggiunta di qualche uovo incastrato sulla superficie, arricchiscono ancora oggi gli antipasti pasquali fatti di formaggi e soppressate.
Ma il piatto forte della tradizione costiera è senza dubbio l’agnello brodettato, meglio conosciuto come «’o beneritto». Presente da secoli nel banchetto pasquale di contadini e padroni, l’agnello a zuppa continua ad essere una costante delle tavole imbandite e assume questo nome per la presenza delle foglie di alloro aggiunte a cottura ormai ultimata. Questi animali costituivano il dono che i coloni offrivano ai padroni in occasione della Pasqua. Ed è assai probabile che le loro donazioni abbiano influito nell’accreditare la tradizione culinaria, ancora oggi in uso in moltissime famiglie, di consumare a Pasqua l’agnello brodettato e speziato. La preparazione di questo piatto è estremamente semplice: dopo aver fatto soffriggere la cipolla nella sugna si aggiunge l’agnello tagliato a pezzi, preceduto da un dito d’acqua salata. Portare a ebollizione e aggiungere se occorre altra acqua bollente. A cottura ultimata sollevare la teglia dal fuoco e completare l’opera unendo uova sbattute, caciotta e caciocavallo grattugiati, pepe e foglie d’alloro. Maritata si, ma con la carne di maiale. E’ la minestra di Pasqua, il cui «condimentum» in Costiera Amalfitana varia addirittura di borgo in borgo. Già, perché l’usanza di questi luoghi vuole che alle delicate verdure romaniche si aggiungano diverse varietà di carni come noglie, pezzenti, stomaco e gamboncello.
E ciascuna di queste ancora oggi conserva una sua paternità geografica riconducibile alle rivalità tra comuni, la più nota delle quali era in atto tra Maiori e Tramonti. E mentre all’epoca si litigava su come maritare la minestra, c’era chi pensava a far durare fino all’estate quei nobili antenati del cotechino fatti con carni sanguinolente e cartilagini. Tutte conservate con sale, pepe e semi di finocchio selvatico. E’ questo il caso di Scala dove almeno uno dei gamboncelli, doveva durare almeno fino al 10 di agosto, giorno della festa patronale di San Lorenzo. La pietanza d’occasione, manco a dirlo, era la minestra ammaritata, così come nel giorno di Pasqua. Ma se le carni finivano per logorarsi, allora occorreva accontentarsi del solo supporto in legno che in cottura sprigionava tutti i sapori della stagionatura. Semplici e deliziosi sono poi i «casatielli» pasquali, morbidi dolcetti fatti di leggero pan di spagna glassato con zucchero e minuscoli confetti colorati detti «diavolilli», prodotti ancora oggi dalla storica pasticceria Pansa ad Amalfi.
E’ questo, ormai da qualche secolo, il dolce tipico della Costiera, insieme con le pecorelle di zucchero da divorare durante le scampagnate del lunedì dell’Angelo. Stando a quanto raccontava il compianto archeologo del gusto, Ezio Falcone, quello della Pasquella è il giorno del timballo di maccheroni fatto con ragù di cularda di manzo e maiale, polpettine, mozzarella, salame, uova, sugna e bucatini. Il tutto raccolto in una pasta frolla da un centimetro. A goderselo sono in tanti, durante le scampagnate del lunedì tra i sentieri della «Terra della Sirene». Questo a Pasqua. E nei giorni di digiuno? Se i riti penitenziali frenavano la laboriosità di monache e frati cistercensi, dalla tradizione popolare ecco spuntare zuppe di verdure e di legumi ma anche prelibati dolcetti come ad esempio i «quaresimali». Si tratta di piccoli biscotti fatti di mandorle e nocelle, impastate con solo olio. Questi dolcetti che avevano la forma di numeri o di lettere dell’alfabeto, si preparavano nei giorni prima di Pasqua. E Ancora oggi, intinti nel vino, risultano essere prelibati.
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