Le Taillevent a Parigi
Rue Lamennais, 15
Chiuso sabato, domenica, e in agosto
Tel. 0144951501, fax 0142259518
www.taillevent.com
Aperto a pranzo e cena
Chiuso domenica e lunedi
di Giulia Gavagnin
La Grand Cuisine in Francia scricchiola da qualche anno, non gode di ottima salute, la Michelin a casa azzoppa i suoi cavalli, se lo stile è quello che fu. E’ notizia fresca il declassamento di Guy Savoie da corona a tre punte a due, e fan sempre più man bassa di stelle i francogiapponesi, i francocinesi, i francoqualcos’altro che sottraggono, contaminano, assemblano e parlano la lingua di Flaubert con gli occhi un po’ all’insù.
La Michelin non ha più fiducia in ciò che l’ha resa grande o quel che l’ha resa grande non è più granchè?
Capita che allora, i grandi luoghi di Francia, quelli storici e immutabili, mantengano la classe ma cedano un poco di quell’immutabilità con l’ausilio di forze esterne, non contaminano, ma aggiungono, assoldino ai fornelli uno chef italiano che dichiara amore al Grande Stile Francese.
Siamo a Parigi, nel cuore della Ville Lumière, a pochi passi dall’Arc de Triomphe, nel ristorante che è un inno al Triomphe.
Le Taillevent, nell’edificio che fu del duca di Mornay.
Grande stile, quadri fiamminghi e francesi del sei-settecento, argenterie preziose, tappezzerie di Beauvais, tappeti d’Aubusson, servizio sincronico cadenzato come fosse un rondò, gran finale con crepe suzette flambèe.
Dice Maurice von Greenfields, alias Maurizio Campiverdi, autore dell’enciclopedico e indispensabile “Tre Stelle Michelin-Enciclopedia dell’alta ristorazione mondiale con la storia dei 286 ristoranti tristellati dal 1933 al 2020”: “Taillevent è l’emblema della classe, cioè di quell’insieme di qualità così difficili da definire, ma così facili da riconoscere e da ammirare se chi osserva è una persona di buon gusto”.
Solo per essere un tempio e un monumento allo sfuggente e leggiadro concetto di “classe”, Taillevent merita una visita almeno una volta nella vita, sempre che l’avventore sia una persona “di buon gusto” come osservato con fare sornione da Campiverdi.
Tuttavia, il successo costante nel tempo di Taillevent è segno che –fortunatamente- il buon gusto non è mai morto.
Tristellato dal 1973 al 2007, oggi bistellato in cerca di revanche senza troppi affanni, fa duettare in contrappunto atmosfera e grand cuisine, come si conviene allo stile francese haute-bourgeois.
Una brigata di sala di alto livello che si muove all’unisono, una cucina di grandeur transalpina che non rinnega Point né Bocuse perché non avrebbe senso distruggere quel che è stato grande, anzi, grandioso; e allora via libera a bisque, foie gras, truffle noir a scaglie con generosità.
Il gran cerimoniere dei fornelli? Giuliano Sperandio, in Francia da diciassette anni, che con accento ormai mèlange afferma di amare incondizionatamente l’opulenza burrosa e salsata dei cugini d’Oltralpe.
Segno che è proprio vero, “i francesi ci rispettano che le bal.e ancor gli girano”, siamo noi a schifarli ancora un poco perché non li conosciamo abbastanza, del resto è vero, se non parli bene la loro lingua mica hanno bisogno di capirti, perché la loro è grandeur, la nostra, che mai abbiamo fatto una vera rivoluzione, al massimo arroganza.
Del resto, la storia dei cuochi di Francia è di essere itineranti per portare il sacro verbo lontano, vedi Careme alla corte degli Zar. Figuriamoci se viene estromesso l’italico di talento che dichiara amore per il cappello di Marianne, se da quel cappello estrae meraviglie.
Dunque, in un percorso alla carta di piatti quasi sempre tripartiti, in tre servizi, c’è sempre spazio per un po’ di alleggerimento mediterraneo: alla langoustine con la classica bisque s’accompagna l’equivalente sotto forma di cruditèe; la fantastica animella asseconda il foie gras, ma anche la barbabietola e la “salsa zingara”;
il capriolo è abbondantemente coperto di tartufo nero e da una salsa di rigaglie ma anche da un fragrante tortino di topinambur; le costolette di agnello seguono un rituale provenzale, di salsa al rosmarino e olive verdi.
Filetto alla Wellington per chi opta per il menu classico “Heritage Taillevent” a 210 Euro e piccione in tre servizi al tavolo per il menu più esaustivo “Gestes du Taillevent” a 275 Euro.
Grande, grandissima carta dei vini che fa lievitare il conto senza rimpianti: si sa come gira da queste parti.
Lo storico patron de Le Taillevent era Jean-Claude Vrinat: si dice che dopo la sua scomparsa, il locale non sia più lo stesso.
Sicuramente a Vrinat si era ispirato Gianluigi Morini de Il San Domenico a Imola, il più francese dei nostri ristoranti nello stile.
Non siamo in grado di quantificare la bravura di Vrinat perché non l’abbiamo conosciuto ma, senz’altro, Taillevent resta un luogo di altissima atmosfera e cucina per nulla stanca, che rappresenta con vitalità la grande cucina borghese che talune, superficiali correnti pseudoculturali cercano di affossare in vista del Sol dell’avvenire.
Il problema è che il classico è duro a morire. Per fortuna.
Le Taillevent a Parigi
Rue Lamennais, 15
Chiuso sabato, domenica, e in agosto
Tel. 0144951501, fax 0142259518
www.taillevent.com
Aperto a pranzo e cena
Chiuso domenica e lunedi
REPORT 29 novembre 2012
di Luciano Pignataro
Un grande classico della cucina francese a due passi dall’Arco di Trionfo, con una delle carte di vini più importanti di Parigi, circa tremila etichette curate da Manuel Peyrondet, giovanissimo sommelier premiato come migliore di Francia. Una esperienza di riferimento, come il George V e Plaza Athenee, sicuramente molto costosa (alla fine si pagano dai 300 a i 400 euro se ci si tiene sui vini) ma imprenscindibile quando ci si occupa di cibo, per lavoro come per passione.
Classico per la successione dei piatti, freddo-caldo, pesce-carne-formaggi dolci. Per la esecuzione, per il fatto che Alain Solivérès è solo l’ultimo, bravissimo, cuoco di un testimone partito nel 1946 e che ha interpretato il locale senza tradirne mai lo spirito, quello di un ristorante borghese di lusso in cui la qualità del servizio è pari a quella delle materie prime e dei piatti. Mai, questi ultimi, ingessati, ma attenti alle novità e con il necessario aggiornamento. Insomma, a essere ricchi e competenti, qui davvero ci si diverte alla grande con vini leggendarie e una scelta stratosferica di bottiglie. Secondo Vizzari, nel locale di Laureant e Thierry Gardinier (proprietari di Chateu Phelan-Sègur a Saint Estèphe) non si è mai mangiato e bevuto bene come adesso.
Gli amuse bocche sono freschi e scaldano il palato facendolo salivare. Il primo è giocato sul contrasto dolce amaro e freddo caldo. Divertente e incisivo.
Della vellutata di astice, freschissima, arricchita con caviale rosso e verde, avrei voluto godere sin dai tempi del biberon: uno dei due piatti che più mi ha colpito nonostante sostanzialmente detesto i crostacei.
La seconda botta è il risotto alle rane, da mangiare con le mani. Qui il classicismo francese è contaminato dall’italianissimo risotto. Un piatto nordico, ricco di burro e a fondo bruno, ma al tempo stesso pimpante e fresco.
La Saint Jacques è come l’esame di Diritto Privato a Giurisprudenza, non se ne può fare a meno. Qui lo stupido mollusco viene irrobustito con le nocciole. Passabile ma dimenticabile.
Anche il foie gras non può mancare in un menu classico che si rispetti. Qui alla qualità eccezionale del prodotto fa da contraltare l’uso intelligente dei due frutti che lo acidificano a dovere e lo rendono gustoso e veloce.
Annata 1995 freschissima. Qualcuno in Italia parlerebbe di eccesso di legno:-)
Un classico Pinot Noir fresco, senza eccessive pretese.
Piatto da manuale il vitello. Cottura perfetta, del resto la carne non si è mai mangiata bene come in questi anni grazie all’innovazione delle tecniche di cottura.
Il carrello dei formaggi esige il suo palcoscenico, e lo merita davvero per la sua varietà.
Moderni i dessert, assolutamente non stucchevoli, ma ben equilibrati e defaticanti.
Insomma sicuramente una esperienza da fare almeno una volta della propria vita. In fondo il tetto gastronomico parigino costa la metà di un iPhone 5!
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