Place des Vosges, 9
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Siamo in uno dei miei posti preferiti a Parigi: benché scontata la bellezza, mi affascina il colossale sforzo di razionalismo architettonico della piazza, quasi un preludio all’Illuminismo. E’ bello girare sotto i portici tra le gallerie o spaparanzarsi nei giardini ben curati. Questa perfezione umana assediata dal caos della natura contribuisce a conservare il senso della misura, ossia della distanza temporale e spaziale tra noi e le cose. Un senso, che è poi quello della sopravvivenza, decisamente obnubilato nei tossici degli smartphone.
Un senso che l’esperienza all’Ambroisie contribuisce a coltivare.
Non mancano le critiche a Bernard Pacaud, tristellato da tre decenni ormai, e spesso i riscontri non sono sempre stati positivi. Effettivamente Le Cinq di Briffard o Plaza Athenee di Ducasse sembrano esprimere più energia, maggiore disponibilità al dialogo con altre cucine pur nel ricondurre il tutto a uno spartito gastronomico parigino, ma a ben vedere il motivo per venire qui è proprio quello di assumere la misura del classico francese assoluto, entrare in una scuola di spessore che ha segnato gli ultimi decenni della cucina francese.
Un altro tema riguarda il prezzo, circa 350-400 euro a testa solo il cibo. Ma io continuo a dire che mi pesano molto di più i dieci euro spesi all’Autogrill che questi conti tristellati perché alla fine il costo è eccessivo solo se all’uscita pensi al portafoglio invece che a quello che hai mangiato. E non è questo il caso, al netto di un servizio perfetto, con due, anche tre persone al tavolo e un ambiente stupendo che non vorresti mai lasciare.
La classicità la segnali anche dal pane e burro, l’olio d’oliva qui difficilmente riuscirà mai ad entrare, è più facile che la Chiesa Cattolica approvi i matrimoni dei suoi preti.
Saltiamo l’aperitivo perché sempre fuorviante, un peso inutile quando sei per la prima volta in un posto e devi concentrarti sulla cucina.
Diciamo subito che tutta la linea del pranzo è stata all’insegna della morbidezza. Una morbidezza tutt’altro che caricaturale, ovvio, anzi ricca di complessità e di interesse. Ad esempio l’uovo nella sua semplicità è perfetto, il caviale non serve a spezzare ma a rilanciare.
Il caldo-freddo di scampi è un altro esempio didattico, con il mango a rinfrescare il piatto, la gelatina di bisque che fa da cornice e la freschezza della materia prima.
Altro classico sono le lumache sulla vellutata di aglio, dolcissima, buonissima, perfetta. Il piatto ha un valore assoluto, non necessità neanche di vino per essere completato.
Ci siamo rifugiati nel Gevray Chambertain di Trapez, un Aoc di tutto rispetto che con la sua freschezza ci ha concesso di gestire bene tutto il pranzo.
La sogliola con gli asparagi sono un classico di questi tempi. Mi sono chiesto, visto che li ho trovati ovunque in questi giorni a Parigi, cosa farebbero questi cuochi con i nostri asparagi selvaggi visto che rendono saporito qualcosa che sapore non ha come questi che vengono quasi tutti dalla Spagna. In questo piatto la sogliola è perfettamente interrata con l’asparago ricoperto di una tempura e nella salsa di latte. Perfetto.
Buonissima la carne di piccione, Pacaud ne estrae e ne esalta tutta la dolcezza trasformandolo quasi in un dessert. Spiazzante per noi italiani che preferiamo sempre la carne sul salato, ma molto nordico.
Fuori carta, lo chiediamo, c’è il famoso pollo di Bresse, l’unico al mondo a marchio dop per l’alimentazione e lo spazio che può gestirsi grazie ad allevamenti non intensivi. La carne è veramente squisita, morbida e dolce, viene accompagnato da funghi, spugnole e patate gratinate. Un piatto che vale il viaggio come si scriveva un tempo nelle schede.
Chiudiamo con la piccola pasticceria, stavolta con il dolce passiamo, sarà per la prossima.
In conclusione, un posto dal quale non si può prescindere se si è appassionati o se sei è impegnati nella critica gastronomica. Una scuola che, a mio modesto parere, ha ancora molto da esprimere.
Qui la recensione di Giancarlo Maffi di tre anni fa di segno decisamente opposto:-)
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