Non sopporto niente e nessuno. Neanche me stesso.
Solo una cosa sopporto. La sfumatura.
di Fabrizio Scarpato
“Mi chiamo Tony Pagoda, faccio il cantante melodico e fasciato nel mio vestito blu, sto portando pazienza. Pazienza di aspettare, pazienza di capire, pazienza di riafferrare la mia verità, la mia libertà tra le intercapedini dell’ovvio, tra gli interstizi dell’ottusità.. Ho dato tutto, ho avuto tutto, ho preso tutto: successo, soldi, donne, coca, maestri e imbroglioni,. D’altra parte se la vita è una favolosa rottura di coglioni su cosa bisogna concentrarci? Sulla rottura di coglioni o sul favoloso? Io ho scelto il favoloso, comprese le sue trasformazioni dell’età adulta: squallore, umiliazione, bruttezza. L’incubo di un comodino vuoto quando apri gli occhi al mattino”.
La mia città è Napoli: contrariamente a quelle piccole cittadine di provincia, monotone, pulitine e claustrofobiche, la mia città ha ancora un minimo di senso con quella apertura alata a mare, sterminata. Ti dà la sensazione che puoi fuggire. Poi non fuggi mai.
Mi piace il mare, ma la mia casa guarda sulla collina di Capodimonte: il mare è alle mie spalle e non è bello vivere in una città di mare e a volte dimenticarselo, il mare. Mi piace il mare di quando andavo a pescare con mio padre, il mare di Capri e Anacapri, quello di Ventotene.
Mi piace la musica, sono un cantante famoso in tutto il mondo, lavoro con la voce e quando canto “Una cometa nel cuore” o “Lunghe notti da bar” modestamente potrei fare a pezzetti anche il cuore di un serial killer svedese.
Mi piace mangiare e bere: gin tonic, Ballantine’s per l’orchestra, e non disdegno ettolitri di Falanghina. Mi attizzano le zucchine alla scapece, mi arrapo mangiando una cernia con le mani insieme a una che mi va, mi commuovo al pensiero di irripetibili gnocchi di patate di mia madre.
Ma pur essendo allenato al peggio, di fronte ad una tartare di tonno vacillo, sbando: la trovi sempre e ovunque, da Palermo a Bolzano. Ha rotto i coglioni la tartare di tonno.
Io sono sopravvissuto al risotto allo champagne, alle pennette alla vodka, alla fase delle farfalle al salmone, alla vertigine della pizza coi pomodori pachino, alla tossicodipendenza trasversale della spigola sotto sale.
Ancora ieri mi son sentito preso per il culo: Tony, venerdì preparo un puzzle di spigola in granelle di sesamo. L’avrei presa a calci nei polpacci.
Ho ripensato a mio padre quando rifiutò atterrito un crème caramel, ritenendolo forse poco virile, ma certamente responsabile della decadenza del mondo. Il crème caramel.”
Il lettore appassionato gurmé a questo punto mi barcolla, terreo paventa l’ennesima tiritera della genuinità, della tradizione, della cucina di una volta, della cucina delle nostre mamme e delle nostre nonne. Il gastrofanatico fighetto e modaiolo, una sorta di corto circuito, di semplificazione “strisciante”.
“Io mi incazzo se mi impongono le cose, lo vedo, lo so che ci prendono per i fondelli. Ecco, non me ne frega niente di apparire stucchevole, ma io ripenso a mia madre, alle nostre madri e alla loro semplicità, che rendeva la vita accettabile, forse… felice. E badate bene che semplice non vuol dire elementare, banale: cazzo, non confondiamo, son due cose diverse anni luce tra loro.
Invece ci siamo fatti fottere dai caroselli, abbiamo creduto di poter costruire sistemi più complessi, scelte più articolate: bastava una risposta semplice, ma nessuno era più in grado di darla. Credevamo di esser diventati complessi, invece eravamo solo e irrimediabilemnte più complicati, una specie di degenerazione, intontiti dal frastuono del nostro disagio”.
Azz.., questa cosa della complessità sembra avere il suo peso, anche in cucina. Un pensiero verticale, un florilegio di semplici qualità, che puoi distinguere una ad una, un mazzo di fiori diversi: la complessità. Affastellare, creare orpelli, apparire risulta solo comportamento complicato, vuoto, intrinsecamente fragile, posticcio come granelle di sesamo. Il brutto è che forse non sappiamo più distinguere tra complicato e complesso: crediamo, vogliono farci credere, per restare in tema di musica, che Omaggio a Monk sia un piatto solo complicato, forse inutile, persino banale, incapaci di coglierne l’assoluta semplice complessità, fatta di studio, conoscenza, passione, intuito e memoria. Un bellissimo mazzo di fiori.
“Monk lo conosco, ma preferisco Rino Pappalardo, il mio pianista storico: e poi il mio mito è Sinatra. Venne ad ascoltarmi ad un concerto al Radio City, lo incontrai: non gliene fregava un cazzo di me. Però è vero che il mondo cambia a seconda dei menu, è vero che spesso il cibo dà un senso a diversi modi di vivere: il fottuto problema è che noi non ce ne rendiamo conto. Ci adeguiamo.
Ma io, alla fine di tutto, ripenso ai pomeriggi infiniti, con Gegè, gli amici e i compagni estivi, quando facevamo I tuffi a mare. Ad ogni tuffo ci lasciavamo il mondo alle spalle: mani aperte, testa bassa e piedi uniti, mi raccomando.
Non ci disuniamo, Gegè, non ci disuniamo, urlavamo dentro l’eco di Posillipo: bisogna schizzare il meno possibile. E non vale solo per I tuffi.
Fino all’ultimo istante, Gegè, non ci disuniamo.”
Niente schizzi, per riuscire a capire.
Sfumature.
Paolo Sorrentino. Hanno tutti ragione. Feltrinelli. (pagg. 319)
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