Santo Stefano del Sole è un comune dell’Irpinia alle falde del monte Terminio, e si trova sul lato destro dell’Alta Valle del Sabato, praticamente la porta al Parco dei Monti Picentini. Il suo territorio, prevalentemente scosceso, parte da un altezza slm di circa 350 mt (Capolungo) fino ad un massimo di circa 1200 mt.(Monte Faggeto). E quindi già questo la dice lunga sull’attitudine territoriale per l’allevamento del bestiame. In primavera è uno spettacolo poter ammirare sulla collina, che gode di un’esposizione meravigliosa, soleggiata dall’alba al tramonto(da qui l’aggiunta ” del sole” all’appellativo Santo Stefano), capi di razza podolica che pascolano beatamente sulle sue pendici.
Sono ormai 42 anni che si tiene, a Santo Stefano del Sole, la sagra del vitello podolico. La tradizione ci riporta sino a ventitue anni fa, ultimo anno in cui il vitello offerto dagli allevatori santostefanesi era preparato secondo la tecnica della cottura dell’animale intero, allo spiedo. Da allora, fino all’anno scorso compreso, la sagra del vitello podolico alla brace si è sempre svolta ma la carne veniva cotta già porzionata, tutt’altra cosa, soprattutto in termini organolettici ma anche di scena, rispetto alla cottura originaria. Ed sempre quel “diavolo” di Giovanni Mariconda, patron e chef di Taberna Vulgi, santostefanese doc, a metterci lo zampino…
“Tanto vota, tanto gira e tanto martella” che riesce a convincere il comitato promotore dei festeggiamenti in onore a S.Vito Martire ed ottiene il ripristino della tradizionale cottura del vitello podolico intero. Coinvolge nel progetto il girovago della gastronomia (…s’è attrezzato con camper…) il toscanaccio Paolo Parisi che funge da “consulente esterno” nella delicata operazione di cottura, chiama intorno a sè il fidatissimo “selezionatore di carni”(macellaio sarebbe riduttivo per la sua grande cultura e competenza in materia) Mario Laurino, mette sù una equipe di chef-amici mica da ridere, quali Paolo Barrale, Raffaele Vitale, Gianluca D’Agostino, alcuni agriturismi della zona, e Pietro Parisi, con il quale credo più di tutti gli altri, sia in perfetta sintonia filosofica nel mettere al centro gli uomini con la loro vita, le loro storie, i loro prodotti, tipici ed irripetibili in funzione di tentare per loro un futuro diverso.
Ecco, a tal proposito mi domando come si fa, caro Leo e carissimo Igles Corelli a farsi arrivare con ” sedici euro” di corriere la ricotta di pecora che Pietro Parisi va a scovare sui monti sopra Palma Campania tra i pastori suoi amici, oppure il vitello podolico che grazie a Giovanni Mariconda e Mario Laurino riusciamo ancora a “prelevare” dalle montagne dell’Irpinia !!!” Permettimi di dissentire rispetto alla tua tesi, Igles, secondo la quale “
se il miglior aglio è quello di Sulmona lo prendiamo a Sulmona, se le migliori patate sono di Avezzano andiamo ad Avezzano”… è la diversità del territorio con i suoi millanta prodotti e quindi con le innumerevoli caratteristiche degli stessi che rendono una cucina irripetibile!!! A mio modesto avviso, è più logico seguire il vecchio proverbio dei contadini dell’Irpinia (un territorio a caso ;-) secondo il quale è preferibile “portà la panza addò stà la sustanza”, piuttosto che affidarsi ai corrieri. In soldoni, se voglio mangiare la migliore carne chianina, non mi affido ad un selezionatore di “ottimissimissimi” prodotti, ma pur sempre industriali, affinchè me la porti qui ad Avellino, piuttosto alzo il culo dalla sedia e vado in Toscana a ricercarmi il ristorante che utilizza il prodotto dell’uomo-allevatore, come fanno Mariconda e Parisi. Solo così, legando la cucina al suo territorio potremo dire di aver dato un carattere anche sociale alla semplice esperienza di un pranzo o una cena al ristorante.
E forse potremo anche evitare che Giovanni Mariconda, dopo aver impegnato il suo brevissimo “quarantottore di ferie” in questo encomiabile progetto…sia di nuovo in treno per Punta Ala, dove è costretto ad “esportare” la sua professionalità… e chiariamoci bene: questo gli fa onore!!! Ma ritorniamo alle questioni più tecniche…circa un’ora di appassionato scambio, fitto fitto, con Paolo Parisi, che mi ha evidenziato i punti critici dell’operazione che secondo lui sono essenzialmente due…” il primo rischio riguarda la stabilità della carcassa sullo spiedo, infatti ad un certo punto per effetto della cottura della cartilagine e dei legamenti che tengono insieme la colonna vertebrale dell’animale, si potrebbe verificare una naturale divisione del vitello in due parti con conseguente contaminazione igienica dovuta alla caduta in terra del pezzo, e questo rischio -continua il Parisi- l’abbiamo scongiurato facendo passare un ferro all’interno della colonna vertebrale, giusto nella cavità dove è allocato il midollo spinale.
Il secondo rischio è l’eventualità di una fermentazione della carne interna, che si può verificare per effetto della temperatura alla quale è sottoposta, tale da portare gli interni dell’animale, per un periodo prolungato( 30/35 ore) ad un livello calorico alto (45°-50°), ma non tale da cuocerli. E questo problema si affronta aprendo molto di più le mezzene dell’animale verso il fuoco, divaricandole in modo da ridurre l’effetto schermatura del calore della brace operato dalle superfici esterne a svantaggio di quelle interne”. Degni di nota, anche gli apprezzamenti di Paolo Parisi per la progettazione e realizzazione dello spiedo, costruito da un artigiano locale, apprezzamenti a tal punto sentiti che mi confessa di averne commissionato uno identico, per sè, nella versione smontabile.Beh, che dire…una tre giorni indimenticabile, bella festa, bella gente, ma soprattutto una tradizione irpina strappata all’oblìo della dimenticanza, unendo insieme in questo sforzo, alcuni dei più bravi operatori del settore accomunati tutti da un interesse superiore : l’uomo, i suoi prodotti ed il relativo territorio al centro del nostro pensiero e quindi dell’azione conseguente. Grazie Giovanni!!!
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