di Andrea Docimo
Quante cose sono cambiate, in un anno e rotti.
Il panino, che prima veniva spesso bistrattato e relegato alla sua primigenia funzione “sfamatoria”, ha acquisito e sta acquisendo sempre maggiore ragion d’essere, suffragata dal massiccio flusso di avventori che sempre più spesso decidono di trascorrere la serata in una buona paninoteca.
Con coscienza? Non sempre, ma vale sempre il “beati monoculi in terra caecorum”.
Non è tutto: il panino si eleva di giorno in giorno, anche e soprattutto grazie a locali che sanno fare di pane e companatico un’esperienza sensoriale appagante, sia per stomaco che per mente.
Ne è un esempio pregnante Da Gigione di Pomigliano d’Arco, che quest’anno è entrato nella guida allo Street Food del Gambero Rosso (finalmente, aggiungerei, dato che era già qualche anno che stava facendosi notare, soprattutto da noi) ed è stato “portato” a LSDM 2017, assieme ai panini di Alessandro Frassica di ‘Ino a Firenze, storico pensatore oltre che esecutore del panino.
Ma è lecito parlare di street food, in questo caso? Passi per la storica macelleria, ma il locale recente tutto fa, tranne che “cibo da strada”. E, così come il succitato locale, anche tanti altri.
Andrebbe rivista l’idea che hanno, molti, del panino.
Non me ne vogliano gli integralisti: il panino d’autore, a pensarci bene, non è che sia poi tanto diverso, come concept, dalla pizza. Entrambi, difatti, vedono la compresenza di lievitato e ingredienti, da bilanciare al meglio.
Certo, nel caso della pizza ci sono verosimilmente più variabili da ottimizzare (preparazioni più lunghe degli impasti, gestione costante del/i forno/i) ed è pur vero che trovare una paninoteca od un pub che si contraddistinguano per produrre autonomamente il proprio pane non è cosa semplice. Anche se in Campania ne abbiamo qualche esempio: ecco, mi viene in mente il B-Zone & La Taverna di Bacco, che realizza personalmente i bun per i loro panini.
Perché, dunque, elevare la pizza e non fare lo stesso con il panino?
Esistono gli indirizzi di pensiero: c’è quello della scuola classica (es. Mazzella a Monte di Procida o Gigino è Sempre Un Amico), di quella filo-americana (mi vengono in mente i ragazzi di Lelena Burger), della filo-gourmet (es. Da Gigione, Public House), o ancora quello a metà tra concezione ancestrale e moderna (es. Sturgis Beerhouse, PUOK o Bifburger), e infine la new wave (es. The Black Hole).
E ce ne sarebbero anche altre: basti pensare a La Quinta Pinta a Caserta, dove il pane è molto simile alla puccia pugliese.
La regola aurea, capace di contraddistinguere un posto degno di nota, è sempre più quella di ricercare l’equilibrio piuttosto che gli estremismi, con tutte le susseguenti derive pacchiane e “foodporniane”.
Sì, perché van bene le materie prime (che poi dovrebbero anche essere trasformate a dovere, perché non hanno senso un hamburger di carne di qualità bruciato o verdure stracotte), ma farcire in maniera “scostumata” ed impropria un panino, certo non lo rende appetibile per chi viene chiamato a giudicare (od anche apprezzare, stante che ogni essere umano è dotato di gusto) equilibri e contrasti dei vari elementi, il cui inserimento dovrebbe peraltro seguire una logica di fondo.
Riempiendo in maniera smodata un panino, si ottiene un crash delle varie componenti organolettiche, rendendolo per assurdo insapore, se non fosse per l’unica e molesta percezione di unto.
La logica ed il buon senso dovrebbero essere i requisiti imprescindibili per l’agire umano, ma mi rendo perfettamente conto che spesso così non è.
E qui arrivo al punto nodale del presente articolo: il panino sta divenendo un po’ più piatto, e lo si giudica sempre più come se lo fosse.
Può esserlo (parere ovviamente personale), però, a patto che vi siano razionalità alla base, materie prime di spessore, trasformazione sapiente (è spesso la cosa più complicata) ed oculatezza nella disposizione scenica del prodotto finito.
Passando all’evoluzione dei locali, poi, il servizio, in alcuni, sta raggiungendo picchi di compostezza che di fatto fanno godere appieno l’esperienza. D’altronde, anche i Salvo a S. Giorgio e Pepe a Caiazzo hanno saputo investire illo tempore su un aspetto che veniva spesso trascurato, e proprio il tempo ha dato loro ragione.
E poi carta delle birre, dei vini, qualche cocktail e qualche dolce di pasticcerie locali o blasonate, un digestivo e magari anche un caffè.
Spesso, i limiti sono soltanto nella testa di chi non ha voglia di ascoltare e vedere.
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