di Pasquale Carlo
Seconda serata degustazione a ‘Taverna 87’, wine bar di Castelvenere, con protagonisti i vini pallagrello.
Il pallagrello bianco (codice 381) e il pallagrello nero (codice 382) sono vitigni iscritti al Registro nazionale delle varietà di viti da vino dal 7 maggio 2004. Le due schede ampelografice riportano le informazioni tratte da ‘La risorsa genetica della vite in Campania’, pubblicato dall’assessorato regionale all’agricoltura nel 2001. Per quanto concerne il pallagrello bianco, il vitigno venne descritto presso il vigneto sperimentale della Regione Campania, azienda ‘Vestini Campagnano’, in Caiazzo; per quel che riguarda il pallagrello nero, il vitigno venne descritto presso il vigneto sperimentale della Regione Campania, azienda cooperativa ‘Lavoro e Salute’, in Galluccio. Per entrambi i vitigni, la coltivazione è stata dichiarata idonea nella provincia di Caserta: area Caiatino – Matesino e area Doc Galluccio. Le varietà sono ammesse nelle Igt Campania, Roccamonfina e Terre del Volturno.
Quando si parla di pallagrello, il pensiero corre subito alla Terra di Lavoro, vasta provincia che prima dell’Unità d’Italia era ripartita tra la Campania (provincia di Caserta, parti di quelle di Napoli e di Benevento), il Lazio (Frosinone e Latina) e il Molise (piccola porzione della provincia di Isernia). Nei ‘Primi studi ampelografici della provincia di Terra di Lavoro’ (1878), Giuseppe Frojo sottolineava che Terra di Lavoro comprendeva «contrade perfettamente diverse, sia per clima, come per natura e per posizione dei vigneti». Aggiungendo nella descrizione: «Estesi e feracissimi piani, colline poco elevate, alti monti, si trovano in essa, e dappertutto può dirsi coltivata la vite. I sistemi di coltura però sono diversi, perocché la vite è maritata agli alti pioppi nella Campania, agli olmi nel bacino del Liri, a tutori morti alti nelle colline di Sessa Aurunca, ed alle canne a Gaeta e a Fondi».
In questa vasta area venivano descritte ben 150 varietà di uve, così suddivise: uve nere e violacee 74; uve rosse 5; uve bianche – verdognole – giallognole 50; uve di recente introduzione 15; uve da tavola 7; uve da scarto 17. In particolare, nel triangolo formato dai comuni di Piedimonte d’Alife (oggi Piedimonte Matese), Caiazzo e Castel Campagnano – vale a dire l’area dove oggi è maggiormente diffusa la coltivazione delle uve pallagrello – Giuseppe Frojo descrisse diverse varietà di uve: Aglianica, Fosco Peloso, Lagrima, Olivella (Pizzutella), Olivella (Liatico) e Pallagrella nera tra le uve a bacca nera; Bambinone, Bianca di Spagna (Fa passi), Greco, Grossa, Pane, Pallagrella bianca e Verdicchio tra quelle a bacca bianca; Agostegna di Spagna e Moscadello tra le varietà di uve da tavola; Aleatico bianco, tra le uve da scarto.
Quando si parla di pallagrello, il pensiero corre anche alla Vigna del Ventaglio, ideata da re Ferdinando IV e progettata da Luigi Vanvitelli nella seconda metà del Settecento, sul territorio collinare di San Leucio, luogo già famoso poiché vi fu costruito, nello stesso arco temporale, il grande opificio serico. Questa vigna produceva vini esclusivi ed eccellenti, con una produzione di circa 80 barili ogni anno. Era formata da circa diecimila viti e in ogni settore veniva coltivato un tipo d’uva diverso. Una lapide o cippo, in travertino di Bellona, recava inciso, sotto la regale corona borbonica, il nome del vino prodotto con quelle uve. L’indicazione era riferita a undici vini: Lipari Rosso, Delfino Bianco, Procopio, Piedimonte Rosso, Piedimonte Bianco, Lipari Bianco, Siracusa Bianco, Terranova Rosso, Corigliano Rosso, Siracusa Rosso e, sul finire del ‘700, fu impiantata la vigna dello Zibibbo.
Quando si fa riferimento al vino Piedimonte, pur risultando un collegamento diretto con un’uva chiamata pallagrella, non è facile collegare con certezza documentaria i vini Piedimonte con gli attuali vitigni pallagrello bianco. In particolare per la varietà a bacca bianca, considerata la grande confusione che si registra in campo ampelografico che, fino a due decenni addietro, indicava le uve pallagrello identiche alle uve coda di volpe.
Il vitigno coda di volpe è varietà iscritta al citato Registro fin dal 25 maggio 1970. Nella scheda ampelografica si legge: «Sotto il nome di “Coda di volpe” vengono coltivati nelle province della Campania due vitigni, uno a frutto bianco e l’altro a frutto rosso, che assumono denominazioni diverse nelle varie zone di coltura. Il tipo a frutto bianco è pure conosciuto come: “Coda di volpe bianca” in vari Comuni delle province di Avellino, Benevento, Napoli e Caserta (Maddaloni); “Coda di pecora”, a San Martino Valle Caudina; “Pallagrello bianco”, nel territorio di Piedimonte d’Alife (Caserta); “Falerno”, a Falciano di Carinola; “Durante”, a Carinola come risulta dal Bollettino Ampelografico. Il vitigno “Coda di volpe nera” è invece come tale conosciuto in alcuni Comuni delle province di Avellino e Campobasso, mentre è conosciuto come “Pallagrello nero” a Conza della Campania. Nella scheda del Registro viene descritta la “Coda di volpe” a frutto bianco, che è la più diffusa». In merito alla descrizione del vitigno viene aggiunto: «É stata fatta in seguito ad osservazioni rilevate su un clone della collezione ampelografica dell’Istituto Tecnico Agrario di Avellino. I dati raccolti sono stati poi confrontati con quelli rilevati in un vigneto di “Coda di volpe” presso Maddaloni (Caserta) e con quelli di un vigneto di “Pallagrello” nei pressi di Caiazzo. Da questo esame comparativo è risultato che “Coda di volpe” è sinonimo di “Pallagrello” e che i vitigni in esame corrispondono tra loro».
Niente di più e niente di meno di ciò che era stato già delineato dal Frojo un secolo prima. Lo studioso, infatti, nella prima opera ampelografica di Terra di Lavoro descrive un’uva Pallagralla bianca coltivata a Piedimonte d’Alife, con sinonimi di Durante a Carinola e di Coda di volpe bianca a Maddaloni. In calce alla descrizione, annota: «Identica alla Coda di volpe bianca dei Principati (Avellino e Salerno), descritta nel Bollettino Ampelografico n. 3». Tra le varietà a bacca nera troviamo, invece, l’uva Pallagrella Nera, coltivata a Piedimonte d’Alife, Caiazzo, Ciorlano e Prata Sannita. In calce alla scheda descrittiva una annotazione simile alla precedente: «Identica alla Coda di volpe nera dei Principati, descritta nel Bollettino Ampelografico n. 3». In questo caso anche l’aggiunta: «Quest’uva è reputata eccellente, e se ne ottiene in fatti, un vino da pasto di buonissima qualità».
Tuttavia, fu lo stesso Frojo a confondere più volte sull’argomento, parlando solo in modo sintetico su questi vini. Nell’opera ‘Il presente e l’avvenire dei vini d’Italia’ (1876), parlando di Caserta racconta: «Presso Maddaloni o Caiazzo, o con l’uva Coda di volpe o con l’uva Pallagrella è possibile ottenere vini buoni e serbevoli, ma la quantità ne è poca, onde pel mio compito non metto conto occuparmene». Nella stessa opera, descrivendo la provincia di Benevento, rimarcava: «I vini del Beneventano sono pochi e di poca importanza meno quelli di Pannarano e Cerreto, ove predomina l’uva Pallagrella, i quali sono più morbidi e meno aspri». Importante sottolineare in merito a questa seconda affermazione che i documenti attestano che l’uva maggiormente coltivata a Pannarano – area di produzione importante all’epoca, tanto che nei primissimi anni del Novecento venne qui attivata la prima cantina sociale del Sannio – era proprio la coda di volpe. Ancora una volta ci si trova di fronte a questo forte collegamento tra le due varietà (si tratta della stessa?). Un collegamento semantico che è arrivato fino ai nostri giorni, considerato che i viticoltori di Massa di Faicchio, realtà confinante con Cerreto Sannita, indicano la coda di volpe con il termine “pallariell”.
Sulla scia del Frojo seguirono le descrizioni di altri illustri studiosi. Nella pubblicazione del ministero dell’agricoltura ‘Notizie e studi intorno alle uve e vini in Italia (1896) viene elencata tra le uve coltivate in provincia di Caserta la varietà «Pallagrella o Coda di volpe».
Giovanni Raineri, sulle colonne de ‘L’Italia agricola’ (1904) specificava: «Per quanto io non abbia avuto agio di fare confronti accurati, pure mi sembra che al pallagrello siano da riferirsi le uve note col nome di coda di volpe bianca e nera delle province di Avellino e Benevento». Qualche anno dopo, Eugenio Cavazza in un lavoro per l’Enciclopedia agraria italiana (1914) scriveva: «I vitigni Coda di volpe bianca e nera sono nel luogo di origine meglio noti col nome di Pallagrello […] Il Pallagrello bianco è noto anche come Coda di Volpe, Coda di Pecora, Falerno e Durante, molto diffuso nella parte alta della Terra di Lavoro, nonché nelle province di Avellino e Benevento, nella Calabria e specialmente nel circondario di Piedimonte d’Alife, assieme alla corrispondente varietà nera; esso si coltiva per lo più maritato all’albero, germoglia e matura tardi, l’uva può anche essere conservata; vinificato singolarmente o con altri vitigni, dà un ottimo vino da pasto».
Un accostamento che ritroviamo anche nelle prime litografie che ritraggono il vitigno, che una volta viene indicato come Coda di volpe (Viale e Vermol) e una seconda volta come Pallagrello bianca (L’Italia agricola).
A rendere ancora più difficile la risoluzione dell’arcano è una notizia, forse sfuggita alla maggioranza degli studiosi dell’ampelografia dell’Ottocento, che giunge sempre dal Frojo. Lo studioso, sempre nei primi studi ampelografici di Terra di Lavoro, descriveva un’uva a bacca bianca chiamata Grossa, che era particolarmente coltivata a Caiazzo. Per quest’uva era riconosciuta come sinonimia Pallagrello, nome utilizzato in quel di Castel Campagnano. L’acino di quest’uva veniva descritto come «mezzano, tondo». Quindi leggermente diverso da quello dell’uva Pallagrella bianca, il cui acino era «piccolo, pochissimo ovale».
Quella della forma dell’acino è un aspetto di non poco conto quando si parla di uva pallagrello, considerato che nel disciplinare di produzione di vini ‘Igt ‘Terre del Volturno’ si specifica: «il nome Pallagrello (o Pallarello nel dialetto locale) verrebbe da Pilleolata, letteralmente piccola palla in latino, a richiamare la forma degli acini». Quindi, un acino sferico, tondo.
Questa ricostruzione curiosa non toglie assolutamente nulla alla tipicità e alle potenzialità dei vitigni pallagrello. Serve, invece, a chiarire ancora una volta – qualora ce ne fosse bisogno – che risulta sempre molto difficile accostare i vitigni attuali a quelli del passato, in particolare dell’antichità. Un lavoro che presta il fianco a diverse possibilità di cadere in errore. Infatti, se non risulta semplice fissare con assoluta certezza la parabola storica compiuta dal pallagrello negli ultimi due secoli, appare particolarmente arduo tracciare precisi collegamenti tra i vitigni attuali e i vini bevuti dai Romani o nel Medioevo. Aspetto ben evidenziato da Giuseppe Guadagno, che nel saggio ‘I vini della Campania dai Romani alle soglie del terzo millennio’ (1997), sentenzia: «alle soglie del terzo millennio in base all’analisi storica, che evidenzia fratture e rivolgimenti, non è ipotizzabile alcun collegamento dei vitigni moderni con quelli di età romana e questo lo si dovrebbe scrivere a caratteri cubitali sui muri». In altre parole: è assurdo ipotizzare di poter propinare una sorta di “cristallizzazione” dei vitigni, che sarebbero giunti a noi inalterati attraverso duemila anni di storia.
Quello che è certo, invece, l’alto livello qualitativo raggiunto dai vini delle aziende casertane, particolarmente affezionate a questo vitigno. Ne abbiamo avuto la conferma durante la serata degustazione a ‘Taverna 87’. In degustazione le etichette di Tenuta Tralice, nuova denominazione dell’azienda Il Casolare Divino, situata in località Spinosa di Alvignano. Azienda avviata nel 2008 dai fratelli Raffaele e Bonaventura Tralice, puntando in primis al recupero del vitigno pallagrello nero, impiantando la vigna che darà la prima etichetta con la vendemmia 2012. Altra azienda, quella di Davide Campagnano, azienda situata a Castel Campagnano, che prende il nome dal giovane laureato in scienze agrarie, che ha deciso di dare un nuovo percorso alla storia agricola della famiglia, da sempre impegnata nella viticoltura. Due aziende con un profondo legame con il territorio del Volturno.
TERRE DEL VOLTURNO IGT PALLAGRELLO BIANCO ‘SÉLICE’ 2021 – TENUTA TRALICE
Un calice particolarmente accademico, che ripropone tutti i tratti salienti e tipici del vitigno: colore giallo paglierino; impianto floreale (fiori gialli) e fruttato (frutta a polpa bianca), agrumato; sorso continuamente fresco, piacevolmente acido e di interessante persistenza.
TERRE DEL VOLTURNO IGT PALLAGRELLO BIANCO ‘RASPRILLI’ 2019 – DAVIDE CAMPAGNANO
Davide ha voluto far provare l’etichetta prodotta nella vendemmia di tre anni fa, per comprenderne le evoluzioni. Alla vista il giallo è di un dorato molto carico, da far pensare ad un processo ossidativo sostenuto. Il naso prima, la bocca poi, attestano invece che abbiamo ancora un sorso vivo, particolarmente acido.
TERRE DEL VOLTURNO IGT PALLAGRELLO NERO ‘RAMPINO’ 2020 – DAVIDE CAMPAGNANO
C’è molta concentrazione, a cominciare dal colore. Impianto olfattivo ampio, in cui emergono ancora bene le note di frutti rossi, che concedono via via spazio alle prime avvisaglie di spezie. Il sorso è avvolgente, con la corrispondenza del frutto e un’interessante spalla acida.
TERRE DEL VOLTURNO IGT PALLAGRELLO NERO ‘TRALICE’ – TENUTA TRALICE
Altra esecuzione impeccabile. Alla vista il rosso rubino brillante, luminoso; al naso avvertiamo piccoli frutti rossi e una piacevole nota floreale che ricorda la viola, mentre si affacciano sfrontate note di pepe, erbe mediterranee; al sorso colpisce il tannino piacevole, deciso ma mai sgraziato, sorretto da buona spalla acida. Meritato il primo posto aggiudicato alla recente edizione di Sud Top Wine, dove questa etichetta è stata premiata come migliore rosso campano (varie Doc, Docg e Igt).
TERRE DEL VOLTURNO IGT ROSATO ‘CIRASA’ 2021
Degustato sui taralli di San Lorenzello e la fiavola di Circello, due interessanti prodotti da forno sanniti. Il colore viaggia verso lo stile provenzale, ricordando la cipolla ramata; al naso il floreale cede subito il passo alle note fruttate, di more e lamponi; il sorso è fresco, sorretto da buona acidità, lungo e persistente, con il frutto che ritorna a farsi avvertire netto e pulito.
Prossimi appuntamento fissato per giovedì 10 novembre. Attenzione puntata su un altro interessante vitigno coltivato in terra casertana, il primitivo.
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