di Giulia Gavagnin
Al Paestum Wine Festival sono giunti anche i grandi vini delle latitudini nordiche, le barbere e i nebbioli di Michele Chiarlo, importante realtà piemontese che dal 1956 coltiva 110 ettari di vigneti tra Langhe, Monferrato e Gavi, rappresentando –di fatto- tutti i territori più vocati della regione.
Paolo Lauciani con il suo linguaggio colto e immaginifico ha condotto la degustazione, il patron dell’azienda Stefano Chiarlo, figlio di Michele e fratello di Alberto, ha narrato la storia familiare e il terroir, disvelando alcuni aneddoti storici che confermano la centralità dell’azienda Michele Chiarlo nel panorama viticolo nazionale.
Iniziamo dalla fine, quindi, con la star del lotto, il Barolo Cerequio, cru prestigiosissima del comune di La Morra, storicamente identificata dall’agronomo Lorenzo Fantini nella metà dell’Ottocento come sottozona foriera delle migliori uve, insieme a quelle dei poderi Brunate e Cannubi.
All’epoca il Barolo era ancora un vino dolce (proprio così!) e le uve dei poderi vocati non si vinificavano separatamente, ma il loro valore era riconosciuto e il mercato le pagava il doppio.
Il Barolo Cerequio Michele Chiarlo è stato presentato nelle annate 2018 e 2016, elegante e soavemente eterea la prima, con note di fragoline, rosa canina, speziatura leggera di pepe bianco, già pronta per il consumo al netto dell’ovvio affinamento che il tempo le saprà dare; diversa la 2016 che si presenta con la spalla e il tannino di un Barolo che riconosceremmo come più “tradizionale”, con note di speziatura più decisa, anche di pepe nero e liquirizia, frutta più decisa e l’inconfondibile nota salina della cru Cerequio che la rende pregna di personalità all’interno dei confini langaroli.
Il Barbaresco Asili 2019, altro cru prestigioso all’interno del comune di Barbaresco secondo Lauciani è la “regina” del nebbiolo per le sue note aggraziate e soavi, l’eleganza innata che spesso ha accostato il Barbaresco –specialmente dell’omonimo comune- alla grazia femminile. A prescindere dalle fattezze muliebri, le marne calcaree tipiche del terroir gli conferiscono una leggera salinità e un corredo di foglia secca, humus, una leggera nota ferrosa e tocchi di arancia sangunella e noce moscata. Un vino gastronomico, ma anche da assaporare in fase meditativa.
Le barbere, Cipressi 2020, affinata in botte grande e La Court 2017, affinata in botte grande e barrique, rappresentano la quintessenza del territorio di Nizza Monferrato, che da pochi anni ha istituito la Docg non senza le polemiche tipiche del mondo del vino. Sono vini robusti dal corredo speziato particolarmente marcato, le note ematiche tipiche del vitigno insieme alla ben nota “freschezza” che caratterizza la barbera. La Court presenta ovviamente le note di vaniglia tipiche della barrique che non sono particolarmente gradite a un certo tipo di bevitore “moderno” ma dispiega anche un ventaglio di note che vanno dal tabacco alla china, dalla cannella al rabarbaro, senza trascurare qualche nota di frutta sotto spirito. Con un po’ di fantasia, potremmo dire che è il vino più “sudista” del lotto, ricorda qualche aglianico, ma non dobbiamo mai dimenticare che la barbera viene coltivata anche in Campania, a differenza del nebbiolo che dà frutti preziosi solo nel suo territorio di nascita.
Chiude il Moscato d’Asti, piacevolmente mosso, vino bistrattato che rivela – all’occasione- tutta la sua potenzialità gastronomica, con le note di fiori d’arancio che sposano l’eccellente colomba pasquale di Noschese, presente al festival con grande successo.
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