IL LOCALE HA CHIUSO. LASCIAMO LA SCHEDA PER DOCUMENTAZIONE
Via Linora
Tel. 0828.811162
www.lalocandadelmare.net
Aperto la sera, domenica a pranzo. Chiuso il lunedì, in estate mai.
Dopo il fiume Sele continua la Campania italiana ma in realtà siamo nella Lucania romana: lo spazio si amplia, il primo dei problemi, parcheggiare l’auto, svanisce. Il Cilento si annuncia ermetico con il profilo delle sue montagne spopolate e un tempo inaccessibili, qui, vicino i templi, brulica l’attività in uno dei posti gastronomicamente più favorevoli: il mare pescoso e poco antropizzato, la biodiversità del Parco, la piana delle bufale, degli ortaggi e della frutta, buoni produttori di vino appollaiati sulle colline. Praticamente tutto. Compresi i templi di Paestum.
A chi lavora in cucina da queste parti si chiede di usare questa dispensa nel migliore dei modi evitando però troiai nel piatto, il peggiore, purtroppo molto in voga in Campania negli ultimi due anni, abbafare i gamberi freschi con la ricotta in una magica combinazione in cui si uccidono ugualmente l’una e gli altri.
La Locanda del mare è aperta da due anni, funzionava sino allo scorso gennaio con B&B grazie ad una dozzina di camere meravigliose appoggiate a ridosso della spiaggia: Biancaluna, Giuseppe e Emma Bifulco sono imprenditori del mare, gesticono lo stabilimento Dum Dum e hanno avviato anche questa impresa con disegni moderni pensati dall’architetto Carmine Voza, in cui la ceramica e il legno, tra l’altro i miei due materiali preferiti, ché l’acciaio mi respinge sempre, sono moderni, non leziosi. L’idea è a metà tra l’ambiente di una barca e un dehor marinaro in cui l’interno richiama l’esterno e viceversa: il placido Tirreno misura duecento passi. Poltrone, divani, angolo bar, punto esposizione prodotti. Qui si organizzano mostre e iniziative all’ombra dei pini d’Aleppo.
E qui si è affacciato Antonio Pisaniello, la nostra passione montanara, irpino stellato e genialoide attratto dal mare di Paestum: una simpatia riversata nell’impresa di fare qualcosa di nuovo, divertente. Il suo gentil trattare la materia prima si incrocia con i giovanissimi Giuseppe e Francesco D’Errico, viaggiano sui vent’anni ma già hanno esperienze importanti, la scuola Alma di Gualtiero Marchesi, un’affacciata da Bottura.
Come non riconoscere il Pisa in questo piatto?
E’ il primo che ci viene servito e l’amaro della cicoria, erba voracemente consumata con gratitudine dal mio sistema epatico, ben contrasta il dolce fagioloso. Niente di straordinario, ma la firma di come si deve mangiare, abbinare e soprattutto presentare la materia prima del Sud.
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Siamo in missione, e decliniamo questo invito:
Il bravissimo Aldo Di Lascio, direttore di sala, ci invita a spolpare questa orata di tre chili appena pescata al largo, dove c’è una nave americana affondata dai tedeschi durante lo sbarco del settembre 1943, l’ultima grande battaglia combattuta nella lunga storia di questa terra contesa da Lucani, Greci, Romani e poi impaludata per sedici secoli prima di essere riscoperta da Goethe, Piranesi e altri protagonisti del Grand Tour.
Resistiamo con dolore ascetico, l’offerta di Aldo, maestro di accoglienza di scuola Savoy Bach del mitico patròn Peppino Pagano è una tentazione grande: questa zona è davvero uno dei posti dove il pesce ancora si butta ed è a buon prezzo (eccetto ovviamente luglio e agosto), ma un protagonista di tal fatta oscurerebbe tutto il resto. Lo lasciamo ai profeti del calamaro accecati dal fuoco, il primo strumento molecolare che ha travisato la purezza.
Pane e grissini fatti in casa. Qui abbiamo sorseggiato un Aglianico di Casebiance.
Immancabile la tartare di tonno, con salsa di soia su letto di maionese: molto fresca e dinamica. Materia prima molto buona.
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Il terzo antipasto in carta era il calamaro su crema di patate. E qui qualche sfizio avremmo potuto togliercelo…Antipasti tra 6 e 10 euro.
Il riso Acquerello con rape rosse, alici e burrata rivela le lezioni marchesiane: buona cottura, ottima dinamica in bocca dove nonostante la zavorra palatale annunciata (burrata) il boccone cammina di buon buzzo non rinunciando ad una punta ruffiana di golosità senza perdere sapidità e freschezza.
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Devo dire che abbiamo apprezzato molto l’introduzione di questo classico, linguettoni di Gerardo Di Nola, con frutti di mare (vongole, fasolare), due calamari e carciofi (siamo in uno dei territori italiani di maggiore produzione). Esecuzione plastica, semplicemente perfetta. Solo gli idioti provinciali e saccenti non si emozionano di fronte alla normalità interpretata con arte.
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Tra i primi avremmo potuto scegliere lo spaghettone pomodorini e vongole, i ravioli di ricotta di bufala con pomodorini e basilico, i fusilli di Felitto con zucchine, pomodorini e menta.Tra gli otto e i dieci euro.
Anche questo classico della cucina campana è ben presentato ed eseguito.
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Saltiamo i ghiotti secondi di carne, tagliata di vitello con carciofi pestani e salsa di prezzemolo, il fileto di bufala al pepe con crema di ricotta, le polpette alla genovese o al ragù. Sui 12/14 euro.
Qui si vede davvero la scuola. Come sempre nella pasticceria che è l’università della cucina perché richiede precisione e attenzione. Leggerezza, freschezza, rotondità.
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Nel dessert, oltre al semifreddo di ricotta e pere e il tartufo al cioccolato con salsa di lamponi, è proposto anche un piatto di formaggi con confetture. Qui siamo sui 5 euro.
Complessivamente il menu è molto ben organizzato, professionale, senza voli pindarici e aderente alla tradizione dei prodotti locali come alle esecuzioni. Una proposta di servizio pronta ad essere rinnovata con il girare della stagione. I fratelli D’Errico, casertani, hanno un futuro davanti: l’entusiamo e l’età mostrano chiaramente come la filiera gastronomica sia una delle cose che in Campania funziona davvero.
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