Marina Abramovic ci guarda con stanchi occhi da lupa. Il suo ritratto, una istantanea al tempo della performance The Artist is Present al MoMa, è diventato un murale grande come il palazzo che si affaccia su Corso Garibaldi, sopra gli ombrelloni, sopra i tavoli, gli aperitivi, i sandali e le scarp de tenis colorate. Su quella che a tutti gli effetti è ancora la Milano da bere. Due finestre sono aperte all’altezza della sua fronte: quanto basta per leggere di Maurizio Cattelan e Gucci, quanto basta per googlare che di queste installazioni ne sono state allestite solo quattro nell’orbe terracqueo, quanto basta per realizzare che stai camminando in prossimità dell’ombelico di un mondo che probabilmente non è il tuo, ma che sicuramente se ne frega di te e ti passerebbe sopra, asfaltandoti non poco, proprio come il contorno occhi di Marina.
La donna aveva occhi da lupa e masticava caramelle alaskane… chissà se i signori seduti ai tavoli all’aperto dell’Osteria Brunello, dall’altra parte del piazzale, avvertono qualche afrore, si accorgono del suo respiro in questa domenica di sole d’ottobre, tanto calda da domandarsi se Milano non si stia adoperando con successo nel sorpassare Roma anche nelle mitiche e rincuoranti ottobrate, quelle delle gite fuori porta, verso le osterie dei Castelli. Io l’Osteria ce l’ho qui e mi accomodo all’interno, a un tavolo d’angolo, legni tutto intorno, lampade sospese, specchi e sedie thonet, quasi come un qualunque ispettore Michelin. Quel cantuccio protetto, che potrebbe essere a Parigi o a Chicago, ma che è comunque sobrio e accogliente, appare lontano anni luce dalle finte tovaglie a quadretti, dai finti piatti di spaghetti, dalle finte pizze di plastica in esposizione tra i tavoli di altrettanto finte trattorie italiane appena incontrate a pochi metri da qui, tra l’acciottolato delle vie di Brera. Intorno a me c’è turismo – io stesso sono turista – ma sembra turismo consapevole e ben armonizzato coi tavoli da due, coi gruppi di giovani, con le famigliole con bimbi ospitate nella sala più moderna, quella delle bottiglie, del grande tavolo e dei divanetti color ocra.
C’è un dolce brusìo, sottofondo discreto e vivo, contrappuntato dal tintinnio delle posate sui piatti: l’Osteria è piena, lo vedi, te ne compiaci, ma quasi non te ne accorgi. Forse perché sei immerso nella lettura di una carta dei vini che sembra scritta da Jack Torrance: Brunello di Montalcino / Brunello di Montalcino / Brunello di Montalcino… per tre pagine fitte ma, al di là degli scherzi, molto ampia e ben fatta. E ti vien voglia di conoscere Tunde Pecsvari, sommelier e padrona di casa, solo per dirle grazie quando leggi ben tre pagine di vini rossi leggeri da bere in estate, selezionati e serviti freschi a temperatura di cantina: qualcosa che commuove anche i cuori più inariditi. Scegli un pinot nero, sempre che non si offendano per il tradimento perpetrato nei confronti dell’amato sangiovese. No, non si offendono, anzi sorridono.
Consapevolezza, armonia, alacrità, gentilezza, sobrietà, festosità… quante facce può avere una trattoria italiana? Con quale bussola deve attraversare il nostro tempo? La Tarte Tatin di zucca butternut sembra orientare l’ago magnetico verso la modernità, perché è buona e ben fatta, giocando sui contrasti di consistenze e temperature, tra sferificazioni di aceto balsamico, fonduta e gelato di parmigiano reggiano.
C’è tecnica, che tuttavia si esprime per strade note e acquisite, a disegnare una scelta estetica che forse serve solo a smarcarsi da eventuali clienti affetti da inopinato nonnismo, e fa il paio con lo Spaghetto Felicetti con pesto di broccoli, sarde affumigate e ricotta di bufala: tanto per dire che si guarda all’Italia tutta, sempre con eleganza e armonia, in questo caso forse un po’ avviluppate in un eccesso di salsa e in una cottura tranquillizzante e poco nerboruta.
E’ l’antica dialettica tra modernità e contemporaneità, che non sono esattamente la stessa cosa: quei piatti hanno il pregio indiscutibile di non essersi fermati a banali riproposizioni, ma al tempo stesso non spingono sull’acceleratore della interpretazione, sulla verticalità e profondità di un ingrediente, di un profumo, di un sapore. Così anche il Risotto alla milanese appare poco incisivo, tranquillamente accogliente, l’onda che lascia posto al bel profumo della riduzione di midollo che spiraleggia in superficie, e a una certa presenza del parmigiano, che si avverte, ma senza disturbare più di tanto.
Che poi Marina Abramovic c’entra poco. Cattelan e Gucci l’hanno presa a prestito per introdurre una mostra che apre i battenti in Cina in cui si argomenta della bellezza della copia nell’arte: la copia, la riproduzione infinita ha dignità propria, fino a rivalutare l’originale. Leggo Google di passaggio tra un sorso e l’altro, ma poi davanti a una magnifica Cotoletta alla milanese, mi sembra di trovare un filo rosso, una interpretazione obliqua, tra le righe, che potrebbe attagliarsi a quel piatto, al concetto di tradizione, a descrivere quel fragile velo che la separa da tutto ciò che è banalmente soltanto tradizionale. Guardo la cotoletta: belle proporzioni, l’osso, il fior di sale, la doratura della superficie, l’altezza forse un po’ scarsa, il taglio che non lascia tracce rosee, se non sporadiche, ma che non sposta di un millimetro la panatura grossa e netta, per un morso leggero, fragrante, bollente, intatto e profumato di burro. Allora penso a quante cotolette sono state fatte nel tempo, qui, altrove, ovunque, e se mai ci sia stata una cotoletta primigenia, l’archetipo, l’originale. Le copia, le riproposizioni, acquisiscono più valore dell’originale: perché ne testimoniano l’esistenza e perché vivono nel tempo, trasformandosi e fluttuando nell’aria e nei gesti, esiti palpabili di gusto, tecnica, ricerca, conoscenza, esperienza. Quella cotoletta non è un cimelio, né una modernizzazione, tanto meno una rivisitazione: non è cronaca, è letteratura. Come accadde per il folk americano: prima c’era Pete Seeger, poi è arrivato Bob Dylan.
Assaggio un Petto d’anatra al rosa qua e là un po’ coriaceo, ma bello e ben equilibrato, con quegli spicchi di pesca marinata al Campari per un anelito di acidità e concludo con un Cannolo di ricotta e gelato al pistacchio di Bronte, per un altro testa coda siculo-lombardo. E così, sragionando tra modernità e contemporaneità, ti rendi conto che ai tavoli non c’è più nessuno.
Fuori c’è il sole, ti siedi per il caffè, nel tentativo di indagare ancora per un po’ su certi passaggi di tempo, assaporando l’informale eleganza con cui qui vengono distillati. Immerso nell’incessante passeggio di tacchi, sandali e scarp de tenis colorate di Corso Garibaldi, non ti senti nemmeno sfiorato. Là davanti è giunta l’ora di chiudere le finestre sulla fronte di Marina Abramovic.