di Antonio Di Spirito
Pochi giorni fa, nel suggestivo Vestibolo di Palazzo Reale, all’interno della cornice della Reggia di Caserta, Tiziana Maffei, direttore della Reggia di Caserta e Maria Pina Fontana, proprietaria con il fratello Antonio di Tenuta Fontana, hanno presentato alla stampa di settore ed agli appassionati, in anteprima, OroRe Nero 2021, il Pallagrello Nero fatto rivivere nelle vigne fortemente volute da Re Ferdinando. Nell’occasione il “neonato” è stato affiancato da OroRe Bianco 2021, già presentato un anno fa. Evento di notevole caratura, che riporta all’attenzione generale soprattutto la Reggia di Caserta. Insieme a Tiziana Maffei e Maria Pina Fontana a celebrare la nascita dei due vini, la storia del vitigno è stata rievocata da Manuela Piancastelli, giornalista e produttrice vitivinicola.
Ripercorriamo le tre storie.
Anche il Pallagrello, probabilmente, ha una tradizione più che millenaria. Al netto delle mutazioni genetiche avvenute nel corso dei secoli a causa dei terreni, dell’esposizione e delle variazioni climatiche, oltre all’utilizzo del piede americano per combattere la fillossera, si può ritenere che le millenarie tradizioni contadine, poco aduse a contaminazioni esterne e fedeli all’utilizzo delle “referenze nostrane”, perché, quantomeno, già acclimatate nel luogo, abbiano portato fino ai giorni nostri quell’uva che i romani chiamavano “Pilleolata” e che veniva utilizzata in uvaggio anche nella produzione del vino Falernum.
Il pallagrello è uno di quei pochi vitigni che si esprime sia in bianco che a in nero; ha grappoli piccoli e compatti ed il nome si riferisce, probabilmente, alla particolare forma tondeggiante del chicco che in dialetto locale viene detto proprio “u pallarell”, ovvero piccola palla.
Nel 1750 Re Carlo III comincia a dare forma ad un suo progetto visionario con l’acquisto del feudo di Caserta e commissiona al suo architetto Luigi Vanvitelli la Reggia che doveva essere residenza reale, ma anche fucina di produttività e delle eccellenze del territorio
Nel progetto di Re Carlo e del suo architetto Luigi Vanvitelli, la Reggia doveva essere residenza reale, ma anche fucina di produttività e delle eccellenze del territorio (chi non ricorda le seterie di San Leucio?). Nel 1759, a soli 8 anni, gli successe il figlio Ferdinando, poco incline agli studi ed alla vita di corte, molto più attratto dalle partite di caccia. Proprio in una scorribanda venatoria aveva conosciuto ed apprezzato molto i vini di Alife.
I Pallagrello erano così amati dal sovrano che lo inserì nella “Carta dei Vini”, unitamente ai grandi vini francesi di Bordeaux e Sauterne, serviti a corte durante i loro pranzi, agli ospiti di riguardo nei pranzi ufficiali.
Il sovrano era talmente geloso di quei vitigni che emanò un editto con il quale si vietava a chiunque di attraversare una masseria di 27 moggi (pari in totale a circa 9 ettari, misurando il moggio casertano mq. 3333,333), di cui 16 moggi vitati a Pallagrello, in una vigna situata in località Monticello nel comune di Piedimonte Matese; su una pietra ancora apposta in questa località, si legge la seguente un’epigrafe: “… nè di notte quanto di giorno con lume o senza, né a piedi né a cavallo né con carretti o some, sotto pena di ducati 50”.
Inoltre, individuò un sito nella Reale Tenuta di San Silvestro e San Leucio (successivamente annesse alla Reggia di Caserta): la Vigna del Ventaglio (oggi si chiamerebbe “vigneto sperimentale”), dove fece impiantare dieci diversi vitigni del Regno delle Due Sicilie e solo due vitigni campani erano presenti: i due pallagrello. Successivamente la vigna fu abbandonata e, durante i secoli successivi, fu sventuratamente seppellita con materiali di risulta, tanto da ritenere, oggi, impossibile un suo recupero.
Il pallagrello è un vitigno delicato e poco produttivo, soffre molto l’oidio e, specialmente il bianco, non ha grande acidità; la fillossera arrivò negli anni ’30, poi ci fu la seconda guerra mondiale e le difficoltà del dopoguerra; come tanti altri vitigni autoctoni della Campania, fu messo da parte dai grandi produttori in favore di piante più resistenti, quali sangiovese, montepulciano e trebbiano.
Pochissime piante erano rimaste in piccole vigne, magari dimenticate o confuse con altri vitigni (Coda di Volpe il Bianco e Aglianico o coda di volpe nera il Nero).
Negli anni ’90 del secolo scorso ci fu gran fermento nel mondo enoico; ci fu, di fatto, una rifondazione nella coltivazione dell’uva, nella produzione e nella cultura del vino. Si sviluppò, altresì, la moda di vinificare in purezza i vitigni, anziché ricorrere ali uvaggi e si propagò la voglia di produttori appassionati di scoprire vecchi vitigni semi dimenticati. Proprio in quel periodo, seguendo ricordi che affondavano nella loro infanzia, due amici casertani, riuscirono a scovare questi due vitigni nella piana del Volturno. Recuperarono le marze ed impiantarono dei nuovi vigneti. Riuscirono a coinvolgere il Prof Luigi Moio, appena rientrato dalla Francia, ed iniziarono la sperimentazione con i due pallagrello. Dopo un discreto successo di mercato, molti produttori si sono affiancati ai due pionieri ed oggi sul mercato c’è un buon ventaglio d’offerta di questi due vini. Inoltre, si va diffondendo la volontà tra i produttori a ricercare una tipicità attraverso studi appropriati sulle caratteristiche dei vitigni e dei terreni che li ospitano.
Qualche decennio fa i siti archeologici e/o artistici sono stati organizzati in entità considerevoli e sono stati assegnati, per concorso, a dei manager i quali hanno libertà decisionali per la tutela e la valorizzazione del patrimonio artistico. Nel 2016 il Direttore del parco della Reggia, Mauro Felicori, mise a punto una serie di piani atti a valorizzare l’intero complesso della Reggia e riqualificare alcune dipendenze.
In questo contesto bandì una gara per il recupero di un antico vigneto a Colle San Silvestro. Da mappe di epoca remota si evince che ci fossero quattro blocchi, ma il bosco ne aveva riassorbito almeno la metà; furono recuperati due blocchi e la metà del terzo; quel progetto proseguì in continuità nel mandato del nuovo direttore Tiziana Maffei.
Fu emanato un bando di gara per l’assegnazione dell’appalto per il ripristino, la coltivazione e la gestione dell’antica Vigna Borbonica, con licenza d’uso del marchio “Vigna di San Silvestro – Reggia di Caserta” e Tenuta Fontana, aggiudicataria della gara per una durata di 15 anni, nel febbraio del 2018 ha iniziato i lavori di dissodamento del terreno lasciato libero dall’invasione boschiva (poco più di un ettaro) ed ha reimpiantato i due vitigni rispettando attentamente le tradizioni colturali in voga duecento anni fa: rigorosamente in regime biologico e con interfilare di oltre tre metri per conservare alcune piante secolari.
L’enologo aziendale Francesco Bartoletti e l’agronomo livornese Stefano Bartolomei hanno seguito l’intero progetto sin dalla preparazione del terreno ed a settembre 2021 c’è stata la prima sospirata vendemmia. La scelta del contenitore per la maturazione è caduta sull’anfora di terracotta: sei mesi per il bianco e diciotto per il nero come.
L’impegno economico per Tenuta Fontana è notevole, ma si spera in un importante ritorno di immagine.
La dichiarazione finale di Maria Pina riassume la filosofia aziendale: “Di sicuro ci sarà una grande soddisfazione portare a termine una missione culturale. Questo progetto, infatti, è segno di rinascita per la nostra terra, un cambiamento ed una rivoluzione culturale per l’istituzione. Ma siamo comunque felici di poter camminare insieme ad un’istituzione come la reggia di Caserta”.
Dopo la presentazione nel vestibolo, abbiamo potuto degustare i due vini in sala Romanelli con il servizio dell’Ais e condotta dal presidente dell’AIS Campania Tommaso Luongo e dal delegato AIS Caserta Pietro Iadicicco.
Queste due nuove etichette non sono dei vini consolidati; sono degli sbarbatelli che cominciano a mettersi in gioco, consapevoli di avere grandi caratteristiche ed talento. Qualcosa da registrare c’è, ma, ricordiamoci che questa è la prima vendemmia e che i vigneti sono stati impiantati solo tre anni prima. Fra qualche anno questi puledri saranno cresciuti e daranno ben altra dimostrazione
OroRe Bianco 2021
Ha colore intenso, dorato e con frequenti giochi di luce. Al naso offre frutta a pasta gialla vagamente tropicale, note di cera d’api, un bel mazzetto d’erbe aromatiche. Al palato sono intense le note fruttate molto saporite ed un vago ricordo della permanenza sui lieviti; la sua struttura materica assorbe molto bene le notevoli note alcoliche; poi, freschezza e speziatura danno scorrevolezza e dinamicità al sorso.
OroRe Nero 2021
Nel calice si presenta di colore rubino scuro con qualche luccichio brillante e regala profumi di piccola frutta rossa e nera di bosco, liquirizia e nespole invernali. Notevole la corrispondenza tra olfattiva e gustativa: il sorso è ben strutturato ed ha buoni sapori fruttati, un tenore alcolico importante, ma ben contrastato dall’acidità e da un elegante tannino. Asciutto e pulito.
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