di Giulia Gavagnin
Un piccolo resort di recente manifattura, fortemente voluto da un’imprenditrice illuminata, è incastonato in un dolce declivio collinare punteggiato da roseti con una grande serra a vista. Il resort si chiama “Le due Matote”, la serra è il suo ristorante e si chiama Orangerie, e la sua vocazione è per gran parte mediterranea. Come la personalità della sua madrina, Arianna Cefis. Creativa, solare, divertente.
Dove siamo? Forse in Costiera Amalfitana?
No, nessuno lo direbbe mai. Siamo nelle Langhe, dove i pendii sono più elevati e la coltivazione della nocciola non ha ancora totalmente ceduto il passo all’onnipresente vite. Non ci troviamo, dunque, dove i cru di Barolo incrociano quelli di Barbaresco, bensì a Bossolasco, città delle rose e patria dell’Alta Langa: nasce qui, infatti, il metodo classico che in pochi anni s’è posizionato ai vertici della produzione spumantistica italiana ma non solo.
E’ una porzione di Langa per intenditori: gli appassionati venivano in pellegrinaggio da queste parti per venire a trovare Cesare Giaccone, il Ligabue (inteso nel senso del pittore, cui somigliava grandemente) della cucina italiana recentemente scomparso, che grande influenza ha avuto tra i cuochi della generazione successiva.
Oggi quest’area costituisce un’opportunità, come intuito da Cefis. Che ha inteso creare un tranquillo retreat in cui il giardino e il roseto costituiscono simbolo di bellezza e di rinascita. E riscaldare l’atmosfera langarola, così fortemente connotata di tinte autunnali, con una cucina a impronta smaccatamente mediterranea.
Inizialmente la consulenza di Orangerie è stata affidata a Roberto di Pinto, neostellato nel suo ristorante Sine a Milano. Di Pinto è napoletano doc, è anche personaggio televisivo e grandissimo lavoratore. La sua identità di cucina è campana al 100% (provare per credere), e anche qui ad alta quota aveva fatto arrivare il sole.
Da qualche tempo Di Pinto ha lasciato il testimone a Luca La Peccerella, anch’egli campano, più precisamente beneventano, che con lo chef precedente ha anche avuto una lunga collaborazione professionale, oltre ad aver svolto il canonico cursus del cuoco con tante esperienze importanti in Italia e all’estero, tra cui anche un passaggio da Gennaro Esposito.
L’attività di ristorazione del relais è duplice: c’è la trattoria con la pizzeria che funziona in primavera e in estate. Poi c’è il progetto di fine dining ancora in divenireche punta a costituire un raccordo tra l’identità campana e quella piemontese. Missione cui lo chef La Peccerella si ritiene portato: dice che essere beneventano lo aiuta, il clima e il paesaggio sannita a volte ricordano quelli langaroli.
Così, affida l’inizio a un gioco campano-piemontese molto ben riuscito: pizzetta fritta, vitello tonnato, capperi, jus e insalatina dell’ orto. A seguire, Panzerotto, bietola, mozzarella di bufala, olive servito con una spuma alla birra Sagrin nella quale siintinge il panzerotto. In generale, la manifattura degli amuse bouche è pregevole, rappresentano un ottimo biglietto da visita per il prosieguo.
Che si snoda agevole tra i carpacci di ricciola con caviale, l’immancabile uovo al tartufo bianco di Alba con porcini e fonduta di parmigiano, e uno spaghetto ai profumi e agli agrumi della costiera con la salsa verde piemontese (ottimoabbinamento). Un poco più fuori contesto la pasta mista con le triglie, che in effetticrea un effetto straniante nella terrazza con vista sul boschetto.
La Peccerella ci teneva a farci assaggiare la sua versione del filetto alla Wellington, un piatto che amiamo incondizionatamente, di sfumature chiare e precise.
Nella bella carta ci sono molte altre ricette classiche che meritano menzione per la volontà precisa di revisione senza snaturarne l’essenza: terrina di trota con insalata russa di barbabietola fermentata; plin ripieni di ragù napoletano; gnocchi di patate, astice e creste di gallo; salmerino all’acqua pazza; agnello con il suo consommé, spinaci e spugnole.
L’happy ending definitive è con l’immancabile babà, che non fa certo rimpiangerealtre latitudini.
La chiusura invernale, da gennaio a marzo permetterà allo chef di uniformare ancor di più l’idea di costituire un ulteriore trait d’union tra le due regioni.
Un grande ausilio alla cucina viene dall’orto, esteso e coltivato con cura maniacale(c’è infatti anche un menu solo vegetale). Del resto, la proprietà ha messo a disposizione della cucina ogni risorsa, denotando la volontà di diventare leader sulterritorio.
La quiete e la tranquillità della zona permette allo staff di lavorare con la massimatranquillità e di non essere sottoposti a distrazioni.
Del resto, si sa che le Langhe sono una categoria dello spirito.
12060 Bossolasco CN localita, PratoFreddo 1
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