Viviamo strani tempi irrazionali dove la paura detta i luoghi comuni (zingaropoli, la grande Moschea..). Un po’ come quando si pensava che i grissini fossero più leggeri del pane o l’olio di semi meno calorico di quello d’oliva. Così l’acciaio nel mondo del vino riesce ad esprimere oggi voglia di essenzialità, di semplicità, di lavorazione senza trucchi mentre il legno per alcuni è diventato lo sterco del Diavolo.
L’acciaio ha fatto fuori la vetroresina nelle piccole cantine e il cemento nelle grandi. E’ un fenomeno assolutamente moderno, recente. La sua produzione era un indicatore di ammodernamento nei piani quinquennali sovietici di Stalin e nel Grande balzo in Avanti di Mao.
Abbiamo bevuto e beviamo grandi Fiano di Avellino in questi ultimi venti anni, bellissime bottiglie emozionanti capaci di resistere al tempo nonostante siano state pensate solo per soddisfare la fame di bianco dei ristoratori della costa.
Ad un certo punto Mastroberardino provò a reintrodurre il legno con il More Maiorum nella metà degli anni ’90 ma il mercato non era pronto a recepire una bottiglia da aspettare.
Poi abbiamo iniziato proprio noi a spingere come i matti sull’allungo dei tempi dopo che Marsella ha mostrato di crederci lavorando con il coraggio dell’ovvietà (eppur si muove…): aspettare un annetto per avere un prodotto più decente. E questa mossa ha immediatamente staccato il Fiano da tutti gli altri bianchi, aprendo le porte ad un mondo che ha conquistato un numero sempre maggiore di critici e poi di appassionati.
Ma l’uscita in ritardo è ancora un fenomeno che piace a una nicchia che non fa mercato. Soprattutto al Sud.
Mi chiedo ora cosa manca al Fiano per diventare davvero il grande vino bianco nell’immaginario collettivo. Cosa debba cancellare la frase di chi lo beve…ah però:-) Solo un problema di conoscenza? Non credo proprio.
Facciamo l’elenco di quel che servirebbe.
1-Un numero consistente di produttori che iniziano a presentarlo dopo un paio di anni dalla vendemmia. Questo primo passo è avviato, Mastroberardino ha presentato i Vintage 2006 e siamo sicuri che come sempre farà da apripista. Speriamo che l’esempio venga seguito anche dai Feudi e da Terredora.
2- Una modifica nel disciplinare docg che introduca il concetto di riserva come nei rossi
3- Il moltiplicarsi oltre che nel tempo, di virtuosi esempi spaziali: ossia la nascita di almeno una quindicina di cru dichiarati e osservati. Non di selezione delle uve. Cru di cui si possano anche saltare le annate come è normale quando si lavora un vino di una stessa vigna e senza blend.
Fin qui si tratta di passi molto semplici concettualmente, anche se sappiamo che al Sud è tutto molto complicato dalla immaturità commerciale. Ma a nostro giudizio sono solo mosse preliminari perché il Fiano potrà entrare nell’Olimpo solo quando si sarà trovato il giusto rapporto con il legno, questione sinora studiata molto poco.
Non crediamo infatti che ci si possa smarcare dall’ovvietà e dall’omologazione con le macerazioni esasperate o con strumenti come le anfore. Sono sicuramente espressioni interessanti che potranno dare risultati di qualità, ma che rivelano anche una cultura minoritaria, quasi che il Fiano non possa confrontarsi con il legno alla stregua di altri grandi vitigni internazionali raggiungendo così la giusta maturità espressiva alla quale può sicuramente ambire come dimostrano le verticali che sin qui abbiamo potuto realizzare.
Qui la difficoltà è maggiore per tre motivi strutturali di ritardo
1-I capitali. Il legno vuol dire investimenti cospicui che non tutti hanno voglia di fare di fronte ad un prodotto che già si vende alla grande grazie solo all’acciaio.
2 –La ricerca. Il legno sullo chardonnay è studiato in tutto il mondo da molto tempo, esistono decine di pubblicazioni specializzate. Mancano invece totalmente ricerche e sperimentazioni scientifiche sul Fiano. C’è dunque un problema di conoscenza da colmare.
Diciamo anche che alcuni usi del legno, nei bianchi e soprattutto nei rossi, in Italia sono diventati scorciatoie per far somigliare i propri vini ad altri modelli e non, come dovrebbe invece essere, per marcare le differenze nella qualità.
3-Il blocco culturale. I produttori irpini vivono grazie al bianco ma non c’è consapevolezza che la vera natura della regione è il bianco. Eppure basterebbe solo comparare il numero di vitigni a disposizione per giungere a questa conclusione ovvia. Tutti quando pensano al top guardano al rosso, ma la Campania ha una sola vera possibilità per entrare nel regno della eccellenza mondiale: è il Fiano di Avellino. E’ incredibile vedere i grandi fianisti e bravi produttori di greco stripparsi appresso al Taurasi o all’Aglianico quando hanno già in mano la formula della immortalità. Somigliano alle donne afghane che non si tolgono lo chador. Eppure la soluzione è lì, proprio sull’uscio delle loro cantine.
Noi non sappiamo se riusciremo a vedere questo sviluppo ulteriore, questo passo in avanti indispensabile per trasformare della buona frutta in un grande vino, soprattutto in una zona di produzione in una realtà vitivinicola solida e capace di tramandarsi di generazione in generazione.
Sappiamo però che chi rifiuta in modo aprioristico questi ragionamenti sbaglia approccio, mostra di vivere con poca fiducia il proprio quotidiano.
Attualmente in Irpinia non conosciamo quali legni siano adatti al Fiano perché nessuno ha affrontato la questione: sono state introdotte tecniche studiate per altri vitigni (lo chardonnay soprattutto). Bisogna dunque iniziare a sperimentare e speriamo che siano proprio le aziende leader (Mastroberardino, Feudi, Terredora, Villa Raiano, Montesole) ad avviare un processo di questo tipo, seguite da tutti i grandi nomi. Questo processo non può essere circoscritto infatti alla esistenza di una sola azienda e di un solo produttore: saremmo costretti ad aspettare due o tre secoli. Serve uno scatto della filiera, abbisogna un mare di scontri e di scazzi sul legno usato.
Forza.
Nessuno di noi ama il legno che copre la frutta, questa è la visione commerciale che abbiamo spesso contestato. Ma chiunque si interessi di questo argomento sa che la botte serve a stabilizzare il vino e che non è possibile progettare grandi bottiglie capaci di esaltare al massimo la frutta nella sua evoluzione del tempo senza questo strumento.
E allora, i fianisti irpini vogliono restare comodi nella loro elegante berlina o sognano di poter guidare una Ferrari?
Dai un'occhiata anche a:
- Come è cambiato il mestiere di chi vende il vino? Sentiamo Valerio Amendola che lo fa da 30 anni ed è figlio d’arte
- Luigi Iapigio, il cuoco di successo che ha capito tutto sulla Michelin prima dei ragazzi di Lucca
- Tripadvisor guida per l’uso intelligente e cosa fare la prima volta in un locale
- Antimo Caputo: basta fake news sul grano!
- Marco Contursi. Una pizza in teglia da incubo. Perchè, perché?
- Con Mollica o senza chiude per l’estate lo shop on line
- Dieci incazzature estive che fanno restare a casa i clienti
- Vino sputtanato in Tv: il problema non è Report ma l’Italia del Mulino Bianco