Il motivo fondamentale per cui in Italia c’è ancora immaturità commerciale e soprattutto una scarsa cultura del vino è che seguire la scala gerarchica sullo scaffale non è sinonimo, come in Francia, di una qualità garantita a salire.
Del resto, uno dei misteri del vino italiano resta il suo prezzo. In quasi nessun sito si capisce quanto costa realmente una bottiglia, anzi, nella stragrande maggioranza dei casi non sono neanche indicati, ma questo è un altro discorso.
Torniamo invece al problema della scala gerarchica che vede, a salire, il vino da tavola, la igt (indicazione geografica tipica), la doc (denominazone di origine controllata) e la docg (denominazione di origine controllata e garantita): si tratta di certificazioni riconosciute dall’Europa e la logica commerciale vorrebbe che qualità e prezzo fossero modulati su questa gerarchia.
Sappiamo benissimo invece che in Italia non è così e questa è davvero una cosa impossibile da spiegare a uno straniero.
Insomma, da buon paese cattolico, ci facciamo leggi rigide, complicate e minacciose. Addirittura nelle doc e docg si indicano le percentuali di vitigni diversi da usare nei vini che è una cosa contro ogni principio di qualità agricola perché scimmiotta la uniformità del prodotto industriale. Norme talmente severe (tipo fare sesso solo per procreare) che nessuno le segue in pratica, tanto poi c’è il confessionale dove ci si “appara” per l’Aldilà.
Prendiamo il Fiano in Irpinia: molte piccole cantine pur di presentare la gamma completa acquistano uve e si presentano con la Trimurti Bianca Irpina pur senza avere le vigne: Fiano di Avellino, Greco di Tufo e Falanghina Sannio dop un po’ come le aziende conserviere di pomodori presentano pelati, cubettato e polpa. Assicurando l’interlocutore che l’ultima è la migliore annata di sempre e il loro è il vino più buono e più in regola di tutti.
Molti consumatori, rappresentanti, enotecari e ristoratori primi attori di questa catena di incoltura enologica, vedono la fascetta e danno per acquisito che il vino docg di Fiano di Avellino e di Greco sia di per se migliore del Fiano doc. Come in effetti dovrebbe essere.
Invece no. Può capitare di avere aziende che coltivano proprie uve invece di acquistare e che hanno anche il coraggio, direi la lungimiranza, di affrontare il mercato dicendo la verità.
Vi segnalo i tre casi di piccole cantine coerenti che preparano prodotti di qualità senza barare lavorando le proprie uve.
Si tratta di tre ottimi bianchi da collezione e di grande finezza perché tutti di alta quota, ma fuori dall’areale del Fiano di Avellino docg
Fiano Sequoia 2012 Irpinia doc, Fonzone a Paternopoli
La vigna è a quota 500 metri della nuova azienda vitivinicola costruita dalla famiglia Fonzone a Paternopoli. Un Fiano fine ed elegante, di grande allungo nel finale, sicuramente destinato ad una buona evoluzione nel tempo. Sui 12 euro in enoteca
Fiano Irpinia 2012 doc, Antico Castello a San Mango sul Calore
La vigna piantata dalla famiglia Romano è il risultato di un progetto coerente e corgagioso: produrre in proprio uve Falanghina, Fiano e Greco restano nela doc senza comprare. Un bianco di spiccata acidità e di buona stoffa, avviato verso l’equilibrio. Sui 10 euro in enoteca
Casefatte 2013 Fiano Campania igt, Bocella a Castelfranci
Poco più di mille bottiglie eleganti e fini, lavorate in acciaio e legno. Esplosione di frutta bianca e note floreali al naso, buona freschezza e chiusra precisa al palato. Piccolo capolavoro. Fuori persino dalla doc. Sui 12 euro in enoteca.
Non finiremo mai di parlare bene di quelle aziende che hanno una loro coerenza enologica, un progetto, magari anche uno sfizio, che contribuiscono ad evitare una deriva altrimenti pericolosa.
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