di Giustino Catalano
Correva l’anno 1555 quando Papa Paolo IV con la bolla “cum nimis ad absurdum” (quando il troppo è inopportuno”) stabiliva il perimetro del Ghetto di Roma, con mura e tanto di cancelli, da chiudersi a chiave al calar del sole, lasciando agli ebrei la sola possibilità di commerciare in stracci e muoversi al di fuori delle mura portando un berretto di colore giallo gli uomini o uno scialle di identico colore le donne.
Il Ghetto (termine mutuato da quello di Venezia in quanto posto nell’area di una fonderia “getto”) era definito Recinto per gli ebrei.. si recinto.
Che non fosse mai stata vita facile per questo popolo che rappresenta la più antica comunità ebraica d’Italia sin dal I secolo d. C. lo si era già visto in precedenza con gli umilianti riti del Carnevale romano dove venivano fatti correre su Via del Corso (molto prima che fosse il turno storico dei cavalli) anziani ebrei che venivano fatti oggetto, dalla folla assiepata, di ingiurie e lancio di rifiuti.
Nel Ghetto, che è il secondo creato quarant’anni dopo quello di Venezia, agli ebrei, che vivevano in condizioni igieniche a dir poco drammatiche con una sola fontana, non era consentito nemmeno di possedere le case (peraltro le più alte di Roma dell’epoca a causa del sovraffollamento), né di acquistare qualunque parte del pesce che veniva venduto nel mercato del Portico di Ottavia essendoci un dazio consistente in testa e parte della testa che non gli era consentito di acquistare.
A ciò si aggiungano gli straripamenti del vicino Tevere e altre disgrazie e si ha un quadro di estrema povertà e stenti.
Sino al 1870 questa la condizione, poi un lieve miglioramento per ritornare indietro con le Leggi antisemite del 1928 e quel maledetto 16 ottobre del 1943 che portò ai campi di concentramento 2000 di loro dei quali ne tornarono solo 20.
La prima volta che sono andato al Ghetto ne sono stato rapito. Ho letto tutte le “pietre d’inciampo” (piccole targhe di ottone che ricordano i nomi dei deportati che non sono tornati) dinanzi ai palazzi rivolgendo sempre un pensiero a questa gente. Poi sono giunto nel cuore pulsante e turistico del quartiere che per noi tutti reca il nome di Via del Portico di Ottavia mentre per tutti gli ebrei è semplicemente “Piazza”.
Qui tra i tanti locali ho mangiato da Nonna Betta e lì ho fatto amicizia con uno dei titolari. Umberto Pavoncello ex copywriter famoso (suo il claim “una Land Rover non suda mai”). Persona straordinaria, colta e sempre sorridente. Devo dire che è un po’ casa per me e per certi versi un luogo dove torno sempre con immenso piacere.
Umberto, che gestisce il locale assieme al suo socio egiziano ripropone tutti i piatti della cultura ebraico romanesca, non contaminati dalla scissione sefardita ashkenazita che si ebbe pochi anni dopo la Bolla Papale e nata casualmente, come la vicina Isola Tiberina, dalle necessità di sopravvivenza più che da una ricercatezza nei piatti da servire.
Una delle regole che troverete sempre, e quindi non solo qui, della cucina ebraica è quella che carne e latte non vanno mai tenuti e cotti insieme. Che i pesci senza squame e pinne non faranno mai parte del menù e che le carni di maiale, cavallo, coniglio e tutti gli animali privi di zoccolo fesso non sono carni che vi saranno proposte. Ci sarebbero tante altre prescrizioni nella Torah ma per il momento queste per tutti noi sono sufficienti a rispettare questa cultura.
Per i vini vale il discorso della certificazione Kosher (ossia di ossequi alla kasherut – legge alimentare ebraica) per mezzo di un Rabbino all’uopo preposto. Essi devono avere delle caratteristiche che non riguardano solo il processo di pastorizzazione ma anche e soprattutto quello di conduzione della vigna e delle fasi successive di produzione. Mi spiega Umberto che il più grande peccato per gli ebrei è l’idolatria non solo intesa come l’adorazione di un simulacro o idolo ma anche come adorazione di se stessi e del proprio porsi. Mi da serenità questo ragionamento.
Ma torniamo alla cucina della quale vi propongo solo una sintesi invitandovi se a Roma a faci un salto.
Qui non si inizia la comanda a chi accompagna in sala senza aver chiesto il carciofo alla giudia consistente in un carciofo mondato dalle foglie più dure e fritto in olio di semi a testa in giù avendo cura di sciacciarlo il più possibile riducendolo ad una pizzetta. Il risultato è un cuore morbido contornato da foglie fritte sino a divenire delle chips di carciofo.
Un consiglio che vi do di cuore è di provare i “pezzetti vegetali fritti”, lo street food di una volta del Ghetto. Verdure varie pastellate e fritte.
Agli ebrei piace molto il quinto quarto. Quindi, se avete pari passione tra gli antipasti meritevole di grande attenzione è la coratella con i carciofi.
Da citare anche le immancabili alici fritte.
Molto partenopea la “concia”, nostro antenato delle zucchine alla scapece, portato qui dagli ebrei napoletani. E’ particolarmente interessante, oltre che per la sua gustosità anche perché ci lascia immaginare come dovesse essere la nostra ricetta 500 anni orsono. Qui le zucchine, tagliate sottilissime a rondelle, appaiono disidratate totalmente, poi fritte e poi messe ad insaporirsi con olio, aceto e mentuccia.
Altro antipasto proveniente dalla memoria familiare di Umberto gli Aliciotti e indivia di Nonna Betta, consistenti in una tortiera infornata di alici e indivia infornata.
Tra i primi, se non volete rinunciare stando a Roma ad una cacio e pepe qui trovate la versione giudaico romanesca. Cacio Pepe e cicorie. Ottima.
Io personalmente non ho resistito al richiamo dei Rigatoni con la pajata. Cosa sono? Beh per chi non li conosce potremmo definirli un piatto per coraggiosi. Rigatoni conditi con sugo nel quale è stato fatto cuocere l’intestino dell’agnellino lattante. Quest’ultima parte del quinto quarto, per sua conformazione e dimensione è impossibile da pulire. Ma essendo lattante va ricordato che il donatore aveva bevuto solo latte.
Se vi piace e non volete perdervi un piatto davvero di altri tempi ve lo consiglio davvero. Se dovessi darne un giudizio direi che da solo vale il viaggio. Ma è un mio parere personale.
Tra i secondi da segnalare su tutto, benchè abbia trovato tutto davvero ottimo, gli straccetti di tonno con la cicoria e due piatti di baccalà eccellenti. Baccalà al forno con pistacchi e Baccalà con pomodoro e cipolle. Il primo molto somigliante a un baccalà alla vicentina ma con la granella di pistacchio che gli conferisce ulteriore gusto e croccantezza.
I dolci sono sostanzialmente quattro. Il primo, di manifattura del socio egiziano è il baklavà. Questo però si presenta non imbibito nello sciroppo di zucchero ed è farcito con crema pasticciera. Buono davvero.
Gli altri tre sono quelli che potremmo definire i “dolci di famiglia” di Umberto. La Cassola, frolla di crema ricoperta di pistacchi, la torta ricotta e cioccolato che era la preferita del nonno del quale lui porta il nome ed il dolce di ricotta e marmellata.
La cantina, oltre ad essere fornita di etichette italiane ha buoni Syrah e Chardonnay di Galilea. Io mi sono orientato su questi ultimi bevendone due di differenti case, entrambi molto profumati, freschi e con buona spalla. Il Dalton della zona di Safsufa (insediamento a nord della Galilea) e il Galil proveniente da insediamenti vicini. Entrambi di vigneti coltivati in alta collina dove le escussioni termiche tra giorno e notte sono particolarmente significative e contribuiscono particolarmente all’aromaticità delle uve.
Nell’andar via dal locale, tronfio per aver ricevuto la tessera di Nipote onorario di Nonna Betta, nel guardare una delle stampe di alcuni quadri un pittore ebraico di fine ottecento riconosco l’ingresso del locale e lo dico a umberto. Sorride ed eclama “Kazak!”.
Alla lettera significa “forza!”, “Coraggio!”. Un’esortazione che racchiude un complimento per chè il nostro “bravo!” detto da un uomo ads un altro pone chi esclama in una posizione ideale di giudizio e supremazia.
Anche questo è il Ghetto. Benvenuti!
Via del Portico D’Ottavia, 16
Tel.06.68806263
www.nonnabetta.it
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