Fuoco e falò nelle vigne
di Raffaele Mosca
Le foto che hanno inondato il web non lasciano dubbi: le gelate notturne primaverili stanno mettendo a dura prova i produttori in alcune delle più importanti zone vinicole d’ Europa. L’ondata di freddo degli ultimi giorni, che arriva dopo un inverno dall’andamento climatico altalenante, rischia di compromettere la stagione in partenza, perché proprio in questo periodo la vite riprende il suo ciclo con il germogliamento.
Da Chablis, dove le vigne si tingono di rosso dal tramonto all’alba, a Montalcino, dove fenomeni di questo genere hanno pochi precedenti, tutti cercano dei modi per mettere le viti a riparo dal gelo. La soluzione più diffusa, soprattutto Oltralpe – e anche quella più scenografica – è “scaldare” la vigna con stufe, candele e falò accesi tra un filare e l’altro. In questo modo si evitano, nelle ore notturne, quando la colonnina di mercurio scende sotto lo zero termico, il congelamento dell’acqua contenuta nelle piante, dei tessuti vegetali e del germoglio, e danni a gemme e radici che potrebbero avere conseguenze gravi anche nel lungo raggio.
Il metodo è indubbiamente efficace, ma ha diversi svantaggi. Il primo è che si tratta fondamentalmente di un’azione illegale: in Italia – e probabilmente anche in Francia – accendere fuochi tra le vigne è proibito (sebbene le autorità siano disposte a chiudere un occhio in situazioni d’emergenza). Il secondo è il costo dell’operazione: occorre impiegare personale che rimanga a vegliare sulla vigna per tutta la notte, acquistare stufe ed altri strumenti non facili da reperire e rifornirsi di combustibile e materiale da bruciare. Non è un caso che in Borgogna questo metodo venga utilizzato principalmente in Premier Cru e Grand Cru, mentre le vigne meno prestigiose sono spesso lasciate in balia del gelo. L’ultimo grattacapo, invece, ha a che fare con la sostenibilità ambientale: “ che direbbe Greta Thunberg?”, si legge nei commenti sui social. I fuochi, infatti, emettono quantitativi ingenti di CO2 nell’aria. La domanda che sorge spontanea è: si può perseguire con rigore – e zelo – la via dell’agricoltura biologica o biodinamica e poi inquinare per salvare i germogli?
Ovviamente quello dei “falò” non è l’unico metodo per far fronte alla gelata. Nella Champagne, a Bordeaux e nel Vallese in Svizzera i produttori installano da alcuni anni dei ventilatori giganti che miscelano l’aria calda, che di notte tende a salire verso l’alto, con gli strati freddi sottostanti, in modo tale da far salire la temperatura al suolo di 5-6 gradi. Questa pratica è decisamente più sostenibile dei falò, ma perfino più costosa, e perde d’efficacia se le temperature scendono, come nel caso delle gelate della settimana scorsa a Chablis e in Cote d’Or, sotto i -4°C.
Altro metodo è l’ irrigazione antibrina: si installano degli irrigatori a lunghe gittate e basse traiettorie sotto la chioma per creare uno strato di ghiaccio che isola la pianta e la protegge dalle temperature esterne, oppure si fa ricorso a dei microirrigatori a getto continuo. Anche in questo caso, però, il costo dell’operazione è notevole e bisogna mettere in conto un impiego di risorse idriche non indifferente.
Certo è che il problema delle gelate si fa più sempre serio. Capita fin troppo spesso negli ultimi anni di assistere a degli assaggi di primavera a febbraio e a inizio marzo che comportano il risveglio anticipato della vite e il germogliamento precoce, ai quali fanno seguito improvvisi ritorni al clima invernale nel bel mezzo di aprile.
Nel 2016 e nel 2017 – annate in cui, a detta molti, l’inverno “non c’è proprio stato” – questi fenomeni hanno avuto esiti disastrosi: nella Cote d’Or, nel Bordolese e anche nella nostra Franciacorta, il gelo primaverile ha causato danni ingentissimi, con produttori che hanno perso fino all’80% del raccolto. Adesso si ripropone la stessa situazione, ma questa volta chi ha potuto si è preparato per tempo. Resta, però, la convinzione assai diffusa che bisogna ripensare le pratiche agronomiche per evitare di adottare ogni anno misure emergenziali come quelle sopraccitate. Per esempio c’è chi valuta, per i nuovi impianti, sistemi d’allevamento come la Pergola, il cordone libero e il Sylvoz, che allontanano le gemme dal terreno, e chi fa ricorso alla potatura tardiva, che permette, se non altro, di ritardare il germogliamento di due-tre settimane e di arrivare alla fase (quasi sempre) critica d’inizio aprile con la vite che non si è ancora risvegliata del tutto.
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