No Falanghina? No Party!

Pubblicato in: Polemiche e punti di vista

Il brand Falanghina del Sannio

Cosa sarebbe la Campania senza la Falanghina? Tremila ettari, 15 milioni di bottiglie solo tra doc e igt: su circa 400 cantine quelle che non hanno alcun rapporto con questo vitigno sono meno di trenta.

D’accordo, gli enofighetti non lo ritengono un vino emozionante, un po’ il destino del Prosecco, ma quasi tutti i grandi produttori di Fiano e Greco l’hanno inserita e alcuni, Mastroberardino, Terredora, Quintodecimo, Antico Castello, Bambinuto, l’hanno anche piantata in Irpinia. E la Feudi di San Gregorio, come le sue 800mila bottiglie, ne è il primo produttore.

Non a caso è l’unico brand di vino campano che entra nei primi venti di quelli più conosciuti a livello nazionale

Ecco, possiamo dire che senza la Falanghina solo poche aziende campane potrebbero avere la stessa voce capitolo nel mondo del vino italiano, ma soprattutto grazie a questa uva poliedrica, capace di esprimere vini di buona beva e bottiglie di lungo invecchiamento, si difende il reddito agricolo nella campagna e si creano posti di lavoro nell’indotto.

Certo, gli enostrippati avranno difficoltà a trovare il sentore di rugiada, quello delle 4,55 del mattino, ma i critici professionisti sanno bene il valore di questo bianco e lo premiano ogni anno a profusione su tutte le guide specializzate.

Il successo della Falanghina è facilmente spiegato: la sua forza è nella diffusione della cucina moderna, nella tradizione di quella di mare, nel complessivo alleggerimento dei piatti e nella crescita del mondo della pizza napoletana che vede moltissime possibilità di abbinamento.

Infine è uno dei vini che meglio di tutti si colloca nella giusta proporzione tra qualità e prezzo. E le soddisfazioni più belle si provano quando ne aprite qualcuna di cinque, anche dieci anni, che magari avete dimenticato in cantina. Lì si vede il valore di questo bianco e si capisce perchè enologi come Riccardo Cotarella e Luigi Moio hanno più volte dichiarato pubblicamente che è il vino più rappresentativo della Campania.

Certo, poi tutte le opinioni sono rispettabili, anche quelle di chi non ha studiato agraria ed enologia e giudica da dilettante appassionato. Restano i fatti, i numeri, le cifre di un grande mercato. E restano i territori meravigliosi nei quali viene coltivata: il Sannio, l’Irpinia, i Campi Flegrei, il Vesuvio e l’Alto Casertano.
Scoprite come la falanghina, insieme al piedirosso, sta difendendo i Campi Flegrei dall’assalto del cemento selvaggio grazie a viticoltori eroici che hanno avuto la capacità di resistere al richiamo del guadagno facile per investire sul futuro dei propri figli.

Ecco perché chi ama la Campania non può che difendere la Falanghina che regge il sistema vitivinicolo regionale. Una controprova è nel prezzo dell’uva, lo scorso anno più del doppio dell’aglianico.

La critica, anche in questo campo, si divide tra un atteggiamento autocelebrativo e uno professionale. Nel primo caso si scrive a prescindere dalla realtà, senza avere la capacità di far uscire il naso dal bicchiere, nel secondo si segue con tranquillità l’evoluzione di un settore senza avere la pretesa di spiegare come si fa il vino suggerendo modelli virtuali.
In questi vent’anni, riassunti nella verticale organizzata a maggio da Mustilli, la prima cantina ad imbottigliarla in purezza nel 1979, siamo stati fortunati a raccontare la grande intuizione di pionieri come Leonardo Mustilli, Gennaro Martusciello, Angelo Pizzi, Santolo Buonaiuto, Amodio Pesce.

Furono loro a credere nelle potenzialità delle uve campane ed è bello che giovani enologi e critici professionisti non riescano a vedere altro futuro se non quello di proseguire su questa strada contro ogni forma di colonizzazione culturale e colturale.

Ed è stata una emozione per me rivedere l’ingegnere Leonardo al termine di quella cavalcata.

No Falanghina? No Party!

*Pubblicato sul Mattino del 31 luglio


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