di Giulia Gavagnin
Anche se la serata è buia e quasi tempestosa, ci si diverte ugualmente.
Terry Giacomello è un mattatore della cucina, non necessariamente italiana, e ormai è quasi un veterano.
Come molti sanno, è stato –tra gli altri- a El Bulli e da Mugaritz, ha fatto propria l’avanguardia spagnola più estrema e ha fatto assai discutere per le sue scelte –anche estetiche- ai tempi dell’Inkiostro di Parma. Medusa e limone dimenticato erano piatti “diversi”, divertissement puro in cui la forma era anche sostanza ma che nascevano per spiazzare il cliente, per dissacrare senza rinnegare quello che c’era stato prima.
Va detto che Giacomello ha portato in Italia neosuggestioni iberiche con grande umiltà, senza mai affermare che la sua fosse una vera rivoluzione, piuttosto, facendo quello che gli è sempre piaciuto fare. Spiazzare attraverso un punto di vista differente.
Da poco più di un anno lo chef friulano s’è spostato sul Lago di Garda, sponda veronese, sotto il Monte Baldo all’interno del Park Hotel Belfiore dove gli hanno costruito un’enclave di indiscutibile bellezza ritagliata sulle sue precise indicazioni.
“Nin” è il trait d’union tra la locura espanola e le radici nordestine, il nome del ristorante in friulano significa più o meno “bambino”, colui che ancora ama giocare con forme e ingredienti senza rinnegare il passato, ma con una visione delle cose più matura.
Siamo in una delle zone più suggestive del Garda, dove la zona montuosa cade a picco sul lago. Tuttavia, la clientela perlopiù germanica che affolla queste latitudini in ogni periodo dell’anno contribuisce ad appiattire il fattore umano.
Ci voleva una ventata di energia latina.
Poiché nulla accade per caso, il cocktail bar è affidato alla sapienza di Alejandro, bartender cubano che tra reinterpretazioni dell’Americano e spirito carico di “pura vida” prepara adeguatamente all’esperienza della cucina di Giacomello, la quale –piaccia o no- ancora oggi non può lasciare indifferenti.
Non è cosa da poco: da mesi discutiamo dell’intrinseco piattume del fine dining, e qui ci troviamo in direzione opposta, diremmo “ostinata e contraria”.
Nella veranda vista lago o nella sala interna, dopo un inizio molecolare all’azoto liquido che ciporta indietro d’una quindicina d’anni , va in scena lo spettacolo del Nin, tra oggetti di food design, ingredienti impossibili, fascinazioni amazzoniche degne di un apprendista stregone.
Se la partenza è scenografica, con un “ticket” cinematografico da spezzare all’interno di una lattina con una bevanda al gusto di mais a simulare coca cola e pop-corn, l’inizio vero e proprio è comfort, con un buonissimo bao “ripieno” di frico, chiaro omaggio alle radici friulane dello chef: non solo estremismi e asperità, c’è anche spazio per qualche piccola carezza.
Il menu, benchè ampio e complesso, si snoda con agilità.
L’illusione di riso è costituita di finti chicchi di riso costituiti di una soluzione di puro zafferano composti uno a uno e accompagnati da una salsa al cavolfiore e burro acido: al lavoro certosino si accompagna un’esplosione gustativa di un certo pregio.
Di seguito, velocemente, sciorinano piatti stravaganti con ingredienti alloctoni che nella maggior parte dei casi non abbiamo mai sentito nominare. Bello, perché chi sa di non sapere sa di non aver mai finito di imparare, se la vita fosse un’unica comfort-zone saremmo spacciati.
Così, dalle suggestioni vegetali del bulbo di tulipano con pepe di Sichuan si vola in Giappone con una codella di tonno al salebushi e aceto di prugna; ci facciamo ipnotizzare da suggestioni contemporanee ispano-scandinave attraverso il “falso lardo” composto di “tremenella fuciformis” (eh?) e bacca di Ma Khaen e l’”insalata folle” al lampone artico (meno folle di quel che si possa pensare) per tornare a quota Oriente con un raviolo di bottarga adagiato su un recipiente in bambù da dim-sum e accompagnata da miele di olivello spinoso, avgotaraco, limone del deserto e lulo.
Poi torna una vecchia conoscenza della cucina avanguardistica, il cordyceps (fungo parassita dalle forti proprietà medicamentose) già visto alla tavola di Giuliano Baldessarri di Aqua Crua a Barbarano.
Con la differenza che Giacomello lo presenta intero, con avena tostata. Interessante, non buonissimo.
Intellettualmente coinvolgenti i viaggi in Sudamerica: “ackees” (frutto nazionale giamaicano) con pomodoro e coriandolo e “oloturia” (cetriolo di mare) con zabaione di escabeche.
Mi preme sottolineare che Terry Giacomello non è solo un assemblatore di ingredienti stravaganti, ma nei voli meno pindarici dimostra di essere un grande cuoco: un suo signature dish fin dai tempi di Inkiostro è il tagliolino al bianco d’uovo con albume, parmigiano, tartufo: un piatto comfort che non rinuncia a una spinta estrema di umami ma che si rivela eccezionale.
Seguono piatti sempre esotici ma di gusto familiare: anguilla con prugna e salsa adveh; mandorla di mare con aceto di shiso e asino (tradizionale della bassa veronese) con salsa touroku, Vadouvan e cagliata di parmigiano. Davvero eccellenti.
Ancora qualche estremismo.
Nella sostanza: ACD (tartrati del vino, miso bruciato) e Corteccia (yacaratia e linfa di Betulla).
Nella forma: gli ormai celebri banana “omaggio a cattelan” e il poco seducente (ma buonissimo) “limone dimenticato”, con le muffe inoculate.
Una nota necessaria: in sala Francesco Vuolo, maitre, e Giovanni Boscaro, sommelier, sono bravissimi.
Scenografico, manierista, probabilmente un po’ superato e forse per questo ancora più coraggioso. Terry Giacomello offre comunque un viaggio inconsueto, un punto di vista mai banale che merita di essere esplorato: non solo in ricordo della locura spagnola che fu, ma per avere sempre a mente che niente è come sembra. Lo spirito ne esce arricchito: non è cosa sa poco.
NIN
Via Zanardelli 5
Brenzone su Garda (VR)
045 742 0179
Chiuso martedì e mercoledì
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