Nicola Cavallaro lascia il San Cristofaro. Starà un paio di mesi all’estero prima di tornare in Italia. Lo ha annunciato con garbo e con malinconia Stefano Bonilli sul Papero Giallo.
Le chiusure, i divorzi, non sono mai una bella cosa: si chiude un sogno, tramonta una prospettiva, progetti in cui le persone avevano creduto, qualcuno perde il posto di lavoro.
Ma c’è chi esulta. Valerio Visintin, alias Palato d’Amianto, nel suo blog dell’edizione milanese del Corriere, raggiunge l’orgasmo cerebrale.
«Cala il sipario sul San Cristoforo di Nicola Cavallaro nel silenzio ambiguo di quanti ne hanno cantato sperticate lodi. Resterà nella mia memoria il ricordo di qualche piatto brillante, di qualche cena mal centrata, di qualche polemica scomposta e di uno dei testi più comici della guida dell’Espresso di quest’anno, a cominciare dal cannibalesco incipit: “Guadagna ancora sicurezza, Cavallaro. E con essa sapore”.
Non voglio nemmeno immaginare che sapore abbia il signor Cavallaro, ma la sua inevitabile ritirata porta con sé il gusto amarognolo di una sconfitta. C’è una ragione per ogni storia commerciale. Non è il destino cinico e baro a inabissare i conti di un ristorante. Quella fabbrica di starlette dei fornelli che ha sede in alcune redazioni gastronomiche ha tarpato le ali a un indubbio talento, illudendolo che esser cuochi basti e avanzi per vestire anche i panni dell’oste.
Ciò detto, sono pronto a scommettere che il nome di Cavallaro tornerà presto in auge. Speriamo, però, che questa volta riparta con maggiore umiltà e al fianco di un tutor capace di guidarlo. Lo auguro a lui e a tutti quelli che amano la buona cucina, cannibali esclusi».
Colpisce la mancanza di umanità, la rivalsa infantile, l’incapacità di capire che è come gioire per la chiusura di una libreria in un centro storico.
A noi dispiace per Nicola, un cuoco moderno, uno dei pochi capaci di stare bene su Facebook, affrontare le bufere del 2.0 rispondendo alle critiche con pacatezza ma, soprattutto, bravo nel creare e regalare bei piatti ai clienti. Una figura gentile, troppo perbene e dunque facile da colpire.
Tra l’altro, lo notiamo per inciso ai lettori, neanche coccolato più di tanto dalla critica ufficiale perché se è vero che lo scorso anno aveva avuto la promessa di stella dalla Michelin 2011, sull’Espresso è a 15 mentre il Gambero lo tiene a 81 da tempo immemorabile. Visintin mostra anche di avere una visione obnubilata dal suo folle livore ideologico.
Quale la grave colpa di Cavallaro secondo Palato d’Amianto? Quella di non fare polenta e osei, avere buona hotellerie, una carta dei vini, di fare piatti che si possono mangiare senza usare la pala della calce, di aspirare a fare ricerca, creare combinazioni nuove, studiare, investire nella materia prima. Per questo motivo agli occhi di Visintin, che lo aveva distrutto in una recensione piena di livore e odio personale, diventa l’emblema di un sistema corrotto, finto, impegnato solo a turlupinare il prossimo con la compiacenza di giornalisti corrotti e collusi.
Questa visione macchiettistica della realtà ci fa capire che anche il cuore di Visintin è d’amianto.
Dall’alto del suo pulpito mediatico nel quale si sente inutilmente invincibile, spernacchia chi è in difficoltà pur di umiliare i fantasmi della sua mente.
Lui, il giornalista anticasta, l’antiguidaiolo che ha fatto una guida, ama sparare coperto, al sicuro nel posto fisso a vita che ha ereditato dal padre.
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