Dopo aver studiato palmo palmo i suoli della Borgogna, dello Champagna e di Bordeaux ecco che un libro scritto da John Szabo ci mette di fronte ad una verità agricola elementare: i suoli vulcanici sono sicuramente i più favorevoli all’agricoltura e non a caso i migliori vini dell’antica Roma erano prodotti nell’area compresa tra il Vesuvio e Roccamonfina oltre che attorno all’Etna.
Dopo aver girovagato da Santorini ai Campi Flegrei, dai Colli Euganei alla Napa Valley spingendosi sino al Cile, John Szabo ha pubblicato un libro che è ben presto diventato un must per chi si occupa di enologia: “Volcanic Wines: Salt, Grit and Power” (su Aamazon a 27 dollari). Quello che viene definito un nuovo approccio non è altro che la riscoperta del vantaggio di coltivare sui suoli di origine vulcanica grazie alle caratteristiche del terreno che consente di limitare, tra l’altro, l’uso della chimica.
E proprio a New York, al Metropolitan Pavillon, si è svolta la scorsa settimana la prima conferenza sul tema che ha visto proprio John tra i promotori della nascita del’Associazione dei vini vulcanici.
La missione di “Volcanic Wines International” è quella di assumere il ruolo di leader nella definizione e creazione di un movimento per il vino vulcanico e di offrire opportunità educative e promozionali ai produttori di vino vulcanico a livello internazionale. La 1a International Volcanic Wine Conference (IVWC), in programma per marzo 2018 e organizzata da Volcanic Wines International, è stata un catalizzatore nel riunire le regioni vulcaniche del mondo per creare un “marchio di vino vulcanico”, definito come una categoria unica di vini prodotti in alcune delle condizioni viticole più estreme del pianeta. Volcanic Wines International prevede anche di stabilire il marchio di vino vulcanico come categoria premium di vini di alta qualità.
I vini vulcanici sono vini che nascono in zone dove la conformazione del terreno è di origine vulcanica e, di conseguenza, per natura fertile. Si tratta, infatti, di terreni da cui la vite trae grande beneficio, in quanto ricchi di minerali come potassio, fosforo, zolfo e magnesio, rocce laviche, tufi e, non dimentichiamo, anche sabbia, composti quindi utilissimi per il buon drenaggio ed assorbimento dell’acqua, quindi per la fertilità del terreno. La particolare porosità delle rocce che compongono questi terreni garantisce, inoltre, una costante presenza di umidità, che aiuta la pianta a non soffrire nei periodi caldi.
Il mondo del vino ha bisogno di continue novità, e le decine di produttori presenti alla Conferenza lo testimonia. Tra gli altri, non poteva mancare il Consorzio dei Vini del Vesuvio presieduto da Ciro Giordano e diretto da Nicola Matarazzo. Una presenza significativa,cinque delle 23 aziende che producono Lacryma Christi che ha però acceso un faro e rivelato un dato di fatto: il grandissimo fascino che esercita il Vesuvio anche nell’ambiente del vino. Il giorno dopo, alla presentazione organizzata alla pizzeria La Ribalta si sono presentati il triplo dei giornalisti e dei buyers attesi per l’occasione, affascinati dalla relazione del professore Ferdinando de Simone che in quindici minuti ha raccontato il passato della zona vitivinicola più famosa del mondo.
Certo il lavoro da fare è tanto, per decenni il Vesuvio ha prodotto vini per il mercato di Napoli e solo da poco ci si è resi conto di poter andare nel mercato mondiale con ben altri prezzi, a patto di fare una agricoltura seria, consapevole e lavorando bene in cantina. Ma non solo, c’è sicuramente da lavorare anche sul disciplinare. Pensate, ed è un assurdo, che Pompei non rientra nell’area del Lacryma Christi.
Ma non c’è solo il racconto, il fascino del provvisorio, la memoria ancestrale di immani catastrofi ambientali e umane dietro la viticoltura vulcanica. Non a caso il sottotitolo del libro di Szabo è sale, grinta, potenza. Perché i vini ottenuti da uve coltivate su suolo vulcanico hanno davvero una marcia in più, delle caratteristiche comuni che noi abbiamo potuto constatare durante la degustazione in cui sono stati presentati rossi e bianchi realizzati con i protocolli più disparati, in barrique o legno grande o solo acciaio, giusto per parlare dl momento della fermentazione dell’affinamento.
Pur nella differenza di lavorazione c’è un filo comune, la percezione salina, il tocco finale amaro, la mineralità che prevale sul frutto che ne fanno bottiglie moderne e in perfetta tendenza con la svolta degli ultimi anni che punta a smagrire i rossi e ad affinare i bianchi. Vini più verticali come si dice in gergo, meno dolci, meno piacioni, in grado di essere ben abbinati con il cibo. Queste sono le nuove esigenze del gusto mondiale dopo una ventina d’anni passati a bere vini cioccolatosi e marmellatosi, densi, pesanti e sopratutto inutilmente dolci.
Le aree più conosciute per la produzione di vini vulcanici sono: il Vesuvio, i Campi Flegrei, il Soave, l’Etna, Pantelleria, il Vulture senza però dimenticare gran parte dell’irpinia, del Sannio e del Casertano oltre che la bassa Toscana, il Lazio e un pezzo di Umbria.
Secondo dati di qualche anno fa, la superficie vitata a produzione di vini di origine vulcanica è di circa 17.000 ettari per un totale di quasi 160 milioni di bottiglie.
La Campania è la regione più vulcanica: fatta eccezione per il Cilento ci sono tracce di attività del Vesuvio praticamente ovunque, persino in Costiera Amalfitana nell’area di Tramonti. Si tratta dunque di una grande opportunità mediatica che può aprire nuove possibilità ad una viticoltura sicuramente di nicchia ma assolutamente unica nel suo genere. Il Consorzio del Vesuvio ha imboccato questa strada dimostrando di crederci con questa spedizione e una serie di azioni in programma sul tema. Non è escluso che si possa organizzare una tappa della Conferenza Mondiale proprio qui. E dove se non a Pompei? Burocrazia italiana permettendo, si intende perché è l’unica cosa che nessuna eruzione riuscirà mai a spazzare via.
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