di Sara Marte
Il cibo è questione assai grande. Nella materia c’è l’idea. Così, nella fotografia di uno stesso isolato è questione religiosa, politica, economica, ecologica, è uno status ed un gusto. Esauriamo, pratici, una semplice domanda: cos’è che si mangia? Tutto, ovunque, a qualsiasi ora.
Tra la paccottiglia di luoghi comuni sugli americani ed il cibo si traccia però, evidente, un trend. Percepisco, infatti, nel mio ritorno nella grande città, il sovrastante interesse per il cibo che fa bene “healthy”, che sia anche con pochi grassi e magari vegetariano. Ma non basta. Bisogna conoscere da dove viene, e, perché no, anche il contadino. Così i Farmers Market sono gioielli settimanali che colorano la città di frutta e verdura fresca, marmellate fatte in casa e dolci sfornati da laboriose nonne papera che amano raccontare e raccontarsi in avventurose vite di campagna in cui la lotta al male è all’ordine del giorno.
Sì, al male, perché la mia dolce nonnina ha il temperamento di un guerriero dal linguaggio a dir poco diretto. Da anni si dedica alle colture biologiche ma le fabbriche che in periferia sorgono sempre più numerose accerchiano le terre che , pur coltivate nel rispetto dell’ambiente fino ad allora, adesso sono minacciate.
Lo stato, denuncia lei, elargisce fondi alle colture industriali mentre loro hanno difficoltà nella quotidiana amministrazione. In effetti da un articolo della giornalista Heather Rogers (The American Prospect) i dati parlano chiaro : solo il 2 % dei fondi per la ricerca del dipartimento per l’agricoltura sono investiti in organico, il rimanente 98% per tecniche industriali. E’ interessante l’ignorata proporzione tra la richiesta e l’interesse per l’organico ,che cresce fortissima, e i fondi statali. Illuminante il rispetto per l’artigianale , ecosostenibile , a chilometro zero che è suggellato da prodotti in confezioni regalo che sembrano racchiudere un oggetto di lusso. E’ questo dunque il nuovo lusso newyorkese?
Ancora rapita dai colori dei frutti di stagione mi domando dove sia il colore di fronte alle melanzane bianche. Chiedo una ricetta e rimango impressionata dalla cultura gastronomica di quest’uomo che sarebbe un contadino, ma sembra invece un tuttologo. Mi spiega, riguardo le melanzane, che hanno la buccia più tenera e meno semi. Si prodiga generoso in ricette dettagliate di curry indiani e moussaka passando per la parmigiana e conoscendo addirittura la variante con l’uovo e senza. “ Guarda che i nuovi contadini, quelli veri, quelli consapevoli,siamo noi” dice M., ex ingegnere edile, che rifiuta fermamente di essere fotografato. “Noi” continua “come molte delle persone che sono qui oggi abbiamo compreso che siamo parte della soluzione della crisi del cibo e che mangiare sostenibile è la strada”.
Presa visione, inaspettatamente, dell’argomento biologico nell’approccio “nuovo contadino-stato- richiesta consumatore”, mi allontano dal comizio travestito da mercato, destinazione altrove, e tutt’attorno è un fiorire di mangiare e bere. La parte religiosa fa capolino e così, in linea con il “tutto e ovunque” riconosci con grande frequenza cibi kosher, dell’intensa cucina ebraica, passando alla gridata e orgogliosa frase “no pork on my fork!” niente maiale sulla mia forchetta, stavolta di musulmana gestione.
Con gli occhi ben aperti, anche la metropolitana espone annunci salutisti come quelli del “Summer Food Service Program” in cui i ragazzi sotto i 18 anni ricevono un pasto sano e di stagione gratuitamente. Così assieme alla legge che impone alle catene di ristoranti di accompagnare ad ogni piatto le relative calorie, la politica si affaccia alla questione cibo in tangibile concretezza. E’ tutto così contraddittorio! Mi sa che, spogliato ora il newyorkese da finti miti, mi spetti un’altra concretezza: quella di bar e ristoranti di questa città e come dice un proverbio “eat, drink and be merry for tomorrow we may die…t!”.
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