Ho conosciuto Arianna Occhipinti presto, grazie a Fabio Cimmino, bravo degustatore e appassionato, un po’ ideologico nella beva ma soprattutto perbene e privo di interessi (non vende, non fa etichette, etc etc): fu lui a pronunciare il nome di questa giovane produttrice siciliana quando facemmo l’elenco di piccole cantine da inserire in una delle prima edizioni di Vitigno Italia a Napoli, mi pare fosse il 2006.
Successivamente ho bevuto spesso i suoi vini e, quando li trovo al ristorante, li scelgo sempre: si tratta di una Sicilia che si smarca sia dalla marea di cioccolata prodotta negli anni ’90, sia dalla corsa all’Etna. A parte incrociarci nel circo enologico nazionale, sono anche andato a trovarla durante uno dei miei giretti.
Credo che sia impossibile scrivere bene di vino senza aver visto dove lavora il produttore, dove dorme, che macchina ha in garace, che libri sfoglia, che bottiglie beve, come si muove a casa, nel suo guscio. E quando l’ho vista nel suo “palmento” Arianna mi è piaciuta ancora di più: ho percepito il suo totale inserimento con le cose che fa, una meridionale che parla di se stessa senza mai parlare male degli altri.
Il libro ha un filo molto semplice ed essenziale: costruito sul risveglio dopo la grande festa dei trent’anni, ripropone una slide proustiana dei momenti essenziali della vita, dalla passione per il vino ereditata dalla zio Giusto (Cos), agli studi a Milano, ai viaggi on the road stile Sideways nei territori del vino europei, in sottofondo la musica di Nick Cave, alla lettera che scrisse a Veronelli quando aveva 22 anni, subito pubblicata.
Una lettura facile, diretta, semplice, tutto d’un fiato mentre andavo in treno a Verona, che naturalmente parla a chi nel vino lavora o di vino scrive o, semplicemente beve. Ad un certo punto il libro esibisce l’ambizione di essere un manifesto del nuovo modo di fare vino in Italia, ma questo disegno, a mio parere, si evince molto meglio dalle scelte di vita raccontate nei diversi capitoli che nella vera e propria parte enunciativa che spezza il ritmo narrativo, anche se per poco e non in modo invasivo.
Per esempio quando fa il mutuo: “Ho ventidue anni. Non so ancora esattamente cos’ho fatto, ma sicuramente ho iniziato qualcosa. Mio padre lascia uscire tutti dalla salla, mi prende sotto il braccio e sento la sua stretta forte, coraggiosa. Ridiamo come due fidanzati. Ho firmato sul nulla, ho firmato per un’azienda vinicola che non produce ancora niente di niente”.
Altro che assistenzialismo al Sud!
Ma è una frase che le scappa, siamo a pagina 35, che riassume tutto il senso di questo libro-testimonianza: “Quando pensi al mondo attraverso il vino pensi a un mondo diverso dove le città cessano improvvisamente di avere il primato su quello che sta intorno. E forse lì cominciavo a capire che Milano mi stava stretta, avevo bisogno di tornare a Vittoria. Meglio, a Pedalino o nella contrada di Fossa di Lupo”.
Noi terroni abbiamo un rapporto preciso con la geografia: dall’unità d’Italia in poi andare al Nord significava lasciarsi la fame, il freddo, gli stenti e l’ignoranza alle spalle per costruirsi un futuro. Siamo gli italiani che viaggiano di più: non ce ne uno di noi che non sia stato almeno una volta a Milano o Torino, mentre è facilissimo trovare tanti al Nord che non sono mai scesi sotto Roma, ragazzi o produttori di vino che non conoscono Napoli e Palermo.
In questa frase c’è il rovesciamento di un luogo comune, l’essenza di quanto è accaduto in Italia grazie alla rivoluzione del mondo del vino, interpretata da Slow Food, ma che ha coinvolto tutti. Cioé la possibilità di costruirsi il proprio futuro con intelligenza e aggiornandosi, non rinunciando a viaggiare, proprio sotto casa.
E se non sei un terrone questa cosa non la puoi capire sino in fondo, il rovesciamento della equazione di valore campagna-città o Sud-Nord.
Ma ancora: il ritorno di Arianna non è quello borghese degli anni ’70, cioé la riscoperta della campagna nei week end o durante le vacanze estive. Quel mondo un po’ idilliaco per staccare dal ritmo urbano, tanto è un mondo dove a lavorare sono gli altri. No, qui il ritorno borghese alla terra è per faticare, come diciamo noi, zappare, svangare, farsi male alle mani.
Già, le mani. Di queste parla a lungo, della trasformazioni delle mani che quando sono usate non per scrivere ma per lavorare cambiano la stretta. Il primo segno dell’aristocacrazia è avere le mani lisce, pulite, femminili appunto.
Il libro è gioioso, ma non è spensierato. Anche adesso che ha raggiunto il successo (Natural Woman è il titolo di un articolo del NYT, negli States è una star), Arianna ha il rododentro che continua a funzionare, voglia di altri traguardi, di andare ancora avanti.
Sicché il libro più che una celebrazione di quanto realizzato, è quasi una messa in archivio di una parte del passato, qualcosa che lei potrà riprendere tra venti, trent’anni, e dire: ah, ecco cosa ho fatto in quel decennio.
E’ un libro giovane, ma non è di generazione. Purtroppo. Sono altri i miti inseguiti dalla maggior parte dei suoi coetanei. Ma è anche il segnale che, nonostante tutti i casini e gli errori, nonostante il cloroformio di una crescita assistita dai pagherò lasciati a chi viene dopo di noi, l’Italia ha ancora energia creativa e risorse per farcela.
Bisogna, però, essere determinati e fare tanti sacrifici.
Quando leggi l’ultima pagina e chiudi il libro, pensi: meno male che c’è gente come questa ragazza in giro. Forse ce la possiamo cavare.
Arianna Occhipinti
Natural Woman. La mia Sicilia, il mio vino, la mia passione
Fandango Libri
pp.160, 13 euro
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