Il Gusto del Gruppo Gedi, diretto da Luca Ferrua e coordinato da Antonio Scuteri, segna una svolta nel mondo della comunicazione del Food in Italia.
In un intervento su Facebook l’ho paragonato alla nascita del Gambero Rosso del 1986.
Vediamo perché.
Il 1986 è stato uno spartiacque nella storia della comunicazione gastronomica: è l’anno della tragedia del Metanolo, l’ora più buia del vino italiano. Eppure in quel periodo nacque il Seminario Permanente Veronelli, Carlo Petrini fondò Arcigola nelle cantine di Fontanafredda e Stefano Bonilli creò il supplemento nel Manifesto.
Le radici culturali dei protagonisti erano tutte a sinistra, Veronelli anarchico per essere più precisi, eppure questo seme nacque in quello che era un terreno arido, non quanto oggi, anche se, ancora, Bersani in tv liquida la questione ristoratori in Pandemia dicendo che sono evasori fiscali. Un terreno arido perché nella cultura marxista protagoniste della storia sono le classi sociali che si avvicendano sul palcoscenico della civiltà umana e la corrente delle Annales di Marc Bloch e Lucien Febvre a cui si inscrisse Braudel con il suo capolavoro dedicato al Mediterraneo era sdegnosamente descritta come “Il via col Vento della storiografia.”
Una rottura culturale dunque, che in breve tempo, e con molto anticipo rispetto alle tematiche odierne, ben presto risalì dal piatto alla produzione e alla terra.
Seguirono gli anni del boom del vino che trascinò l’agroalimentare, le guide, il delinearsi di nuovi protagonisti nella cucina oltre Marchesi. Un sistema in forte crescita, dunque alla fine adottato dalla Tv che a sua volta ha fatto da moltiplicatore, sino a delineare un comparto da 350mila aziende, un milione e mezzo di occupati, un Pil annuo triplo rispetto alla crescita del paese e un valore di export pari a circa 60 miliardi. Tutto questo in un paese stanco, avvitato su stesso e privo di un ceto politico dotato di una visione pragmatica e non ideologica, e una burocrazia interdittiva ed esattoriale senza pari al mondo.
Anche i media tradizionali si sono accorti tardi del fenomeno agroalimentare perché spesso adagiati a fare pagine e pagine di inciuci politici anzichè entrare nella pelle di un paese reale che non era affatto negativo, che investiva e che esportava finendo per essere la meta della meglio gioventù.
Così mentre nei giornali l’enogastronomia era relegata alle rubriche o alle pagine di Tizio e di Caio piuttosto che a noiose pagine Agricoltura che erano una replica del programma A come Agricoltura, inzeppate di notizie sindacali e parasindacali, si è sviluppata una stampa specializzata prima su carta e poi su internet.
In questo Stefano Bonilli, Carlo Petrini e Gino Veronelli sono stati dei giganti dalla visione lunghissima.
L’inversione di tendenza è avvenuta appunto con la Tv in cui il cibo è diventato rapidamente un genere, non una moda. E’ con Cracco e Cannavacciuolo che i direttori dei giornali si accorgono che gli chef sono delle star e che dunque vale la pena di dedicare pagine all’argomento oltre a come si vestono il primo ministro e le ministre alla cerimonia di insediamento del governo.
Ma l’inversione di tendenza avviene anche con Cairo, editore d’assalto, che comprende l’importanza del tema dal punto di vista pubblicitario: il Corriere della Sera è dunque il primo grande quotidiano che all’argomento dedica redattori interni, un supplemento, un sito e che soprattutto inizia a creare eventi veri e proprio, proprio come Identità Golose, con Cibo a Regola d’arte. In poche parole un media generalista si pone il problema di recuperare il terreno perso in almeno quindici anni.
L’operazione del Gruppo Gedi (Repubblica, Stampa, Secolo XIX) è un salto di qualità definitivo che ricuce un ritardo culturale rispetto ad un mondo che era (è) nettamente avanti a chi lo dovrebbe raccontare (parlo di categoria ovviamente, non dei singoli). Per capire l’arretratezza della categoria, dobbiamo pensare al fatto che solo un anno fa il presidente dell’Ordine dei Giornalisti ha fatto una circolare in cui si escludeva il food dai corsi di aggiornamento professionale fatti per legge.
Il Gusto (a proposito www.ilgusto.it ) mette ordine in un gruppo dove si procedeva in ordine sparso nonostante grandi firme interne (oltre ad Antonio Scuteri, Licia Granello, Gianni Mura, Giuseppe Cerasa con le Guide di Repubblica, Marco Trabucco), investe ben cinque redattori, ottimizza eliminando i doppioni come era la pagina web Espresso (inspiegabilmente affidata all’ex portavoce di Formigoni) e accorpando tutto in un solo hub multimediale che comprende anche video e cartaceo e un sito per tutti i quotidiani del gruppo.
Un investimento massiccio che sicuramente è la prima risposta organizzata al Corriere ma che è anche concorrente con i media specializzati nel food nella raccolta pubblicitaria, andando a presidiare uno spazio assolutamente nuovo.
I grandi cambiamenti epocali che abbiamo la fortuna di vivere ci dicono che stanno cambiando gli investimenti pubblicitari. Alla Dom Perignon fa certamente comodo il grande esperto che decanta l’annata 2010, ma forse interessano anche – se non di più – gli influencer che lo mettono a contatto con il consumatore finale in una bella foto scattata in un tramonto di Reims. Oggi l’acquisto tabellare, il commerciale, perde sempre più valore, anche sul web, alle aziende interessa una comunicazione interattiva.
Ecco dunque che il progetto Gedi aspira ad essere un punto di equilibrio tra redditività e autonomia redazionale. Un confine che il Far West dei blog e dei social ha trasformato in un enorme porto delle nebbie, in una notte in cui tutte le vacche sono nere.
Rivoluzione culturale, dunque. Ma anche economica. Una rivoluzione messa in piedi con investimenti veri, decisamente coraggiosi in un momento difficile come quello che stiamo vivendo e dunque ancor di più meritoria, come deve e può fare solo un gruppo che guarda al futuro, invece di limitarsi a tenere, come si dice a Napoli, ‘o carro pe ‘a scesa.
L’augurio per tutti, amici e concorrenti, è che questo progetto riesca e vada avanti disegnando un futuro a cui tanti di noi hanno aspirato e lavorato: dove cioè l’agroalimentare italiano abbia la stessa dignità di qualsiasi altro argomento.
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